a cura di Pinuccia Parini
Intervista a Sebastiano Pirro, Portfolio Manager di Algebris Investments
Bce e Fed hanno iniziato a ridurre i tassi d’interesse; il contesto americano, però, presenta alcune differenze rispetto a quello europeo. Quali saranno secondo lei le evoluzioni future?
«Credo che nei paesi industrializzati i mercati tendano a essere correlati. Tuttavia, è indubbio che la situazione negli Stati Uniti e in Eurozona presenta delle diversità. Per quanto riguarda quest’ultima, la maggiore parte dell’inflazione è stata provocata da uno shock esogeno: se è vero che anche nel Vecchio continente si è assistito a un aumento della liquidità nel mercato, è stata la crisi energetica a provocare un forte rialzo dei prezzi al consumo. Ciò nonostante, non si può ignorare che l’inasprimento della politica monetaria sia avvenuto in uno scenario dove la crescita economica era abbastanza anemica. È proprio per questa ragione che la Bce sta correndo ai ripari visto che, verosimilmente, l’inflazione scenderà sotto il 2% nell’arco dei prossimi sei-nove o mesi. Da questo punto di vista, considero le aspettative del mercato e quelle della Banca centrale pressoché allineate. Aggiungerei, però, che un’eccessiva cautela della Bce nel tagliare i tassi forse potrebbe pesare sulla ripresa dell’economia».
Quindi non rileva alcuna discrepanza in termini di posizionamento degli investitori rispetto alle indicazioni che vengono da Francoforte?
«No, ma ritengo ci sia un vizio di fondo da parte degli operatori di mercato. Probabilmente abituati a un decennio di tassi vicini allo zero, sono forse troppo fiduciosi che si possa ritornare a una simile situazione: è un’aspettativa fallace, dal mio punto di vista, visto che per riguadagnare competitività e indipendenza energetica l’Europa dovrà fare investimenti che avranno degli impatti sul costo del denaro e sulla dinamica dei prezzi. Mi aspetterei, di conseguenza, una Bce che ciclicamente, in base ai diversi orizzonti temporali, sia chiamata a contenere un’inflazione che potrà salire sopra il 2%».
Negli Stati Uniti la situazione è molto diversa?
«Direi che è più complessa. L’economia americana cresce a un tasso intorno al 4%-5% nominale, in un contesto di politiche fiscali fortemente espansive, a fronte di un disavanzo pubblico che già nel 2023 è arrivato al 7%. Considero tale livello elevato e potenzialmente problematico, foriero di squilibri che prima o poi potrebbero materializzarsi. In questo contesto, le recenti elezioni americane rischiano di acuire il problema, perché con il Congresso nelle mani del partito repubblicano, Trump è potenzialmente libero di portare avanti i piani di spesa, annunciati in campagna elettorale, senza opposizione. Le politiche attese dal futuro presidente su tasse e deregolamentazione, insieme alle misure su accordi commerciali e immigrazione, rischiano di alimentare le aspettative inflative e portare la Fed a rivedere la propria forward guidance, con il possibile risultato che la politica monetaria venga invertita. Per queste ragioni, penso che il mercato stia già scontando molto, se non troppo, i prossimi tagli dei tassi».
All’interno del quadro da lei delineato, come si dovrebbe porre un investitore?
«Dovrebbe cercare gli ambiti del mercato che mostrano valore e le cui valutazioni sono attrattive. Credo che i titoli finanziari presentino queste caratteristiche. Prendiamo il caso dell’Unione Europea. Tradizionalmente il 70% del fatturato bancario proviene dall’intermediazione dei tassi d’interesse; se questi ultimi diventano negativi, come nel decennio passato, tale tipologia di business strutturalmente, in alcune sue parti, perde soldi, come nel caso della raccolta di depositi. La ragione è semplice: la banca deve mantenere una serie di servizi che hanno dei costi. Per far fronte alla diminuzione del margine d’interesse, un istituto finanziario si trova, da un alto, costretto a sviluppare una serie di attività che non sono correlate ai tassi e a tenere il più possibile il bilancio in ordine, dall’altro, tagliare i costi. Nello scenario attuale, tassi d’interesse positivi permettono agli istituti di credito di aumentare il proprio fatturato ed espandere il margine d’interesse. Io credo che, a tendere, i tassi non conosceranno la sola direzionalità ribassista, bensì i tagli si alterneranno ai rialzi. Per i prossimi dieci anni mi attendo una redditività per le banche del 70% superiore a quella registrata durante il periodo di tassi a zero o negativi».
Quanto da lei descritto è scontato dal mercato?
«No, non viene preso in considerazione: le banche trattano a un P/E di 6 e pagano il 10% di dividendo. Trovo quindi l’investimento in equity bancario particolarmente degno di attenzione, così come tutta la derivata in ambito obbligazionario. Penso, però, che occorra tempo perché se ne riscopra il valore. In passato il settore finanziario era stato dominato da investitori di lungo periodo con un’ottica volta a dividendi e generazione di rendimento. Le politiche di tassi a zero hanno forzato questa tipologia di operatori fuori dal settore, con tutti i problemi che ciò ha causato. Basterebbe, a tale proposito, analizzare la compagine azionaria delle maggiori banche europee per rendersi conto che sono poche coloro che contano una presenza di azionisti continuativa nel tempo. Ed è altrettanto ovvio che ciò abbia ripercussioni sulla gestione delle società, soprattutto per quanto riguarda la lungimiranza dei business plan. Focalizzarsi sul riacquisto di azioni proprie ha di sicuro un senso all’interno delle politiche di remunerazione degli azionisti, ma a volte può celare una mancanza di visione di gestione delle proprie attività e non è sostenibile nel lungo termine».
Intravede dei cambiamenti da parte degli istituti finanziari?
«Credo che stiano emergendo alcuni elementi positivi, come la possibile offerta di Unicredit per Commerzbank: vi si può leggere una visione del futuro e la voglia di cogliere un’opportunità di sviluppo attraverso un’acquisizione che possa produrre una crescita organica e aumentare i ritorni».
Nell’ambito del reddito fisso, è il credito l’asset class più appetibile?
«È il credito di qualità e, di conseguenza, mi concentrerei su un processo di bottom-up all’interno degli specifici segmenti di mercato. Penso, infatti, che i titoli di credito siano più interessanti di quelli governativi, tuttavia credo sia opportuno discriminare in base ai rischi di perdite o default degli emittenti. In altre parole, bisogna sincerarsi che questi ultimi possano operare in uno scenario di tassi più elevati, indipendentemente dal ciclo economico. Quando i tassi erano negativi, gli interessi erano talmente bassi che nessuno di essi era inadempiente; ora la situazione è differente e bisogna sincerarsi che una società sia pronta a sostenere un onere maggiore dei tassi d’interesse. Tutto ciò in un quadro di mercato che al momento offre condizioni favorevoli, nel quale le paure legate a ondate di emissioni che lo avrebbero inondato sono gradualmente rientrate».
Quindi anche nell’ambito del credito il comparto su cui vi focalizzate è quello finanziario?
«Certamente, soprattutto in Europa, dove queste emissioni, data la loro maggiore complessità, non sono oggetto d’acquisto da parte di investitori privati; inoltre, sono stati anche esclusi dalle politiche di quantitative easing e quindi, tutto sommato, costituiscono un’opportunità d’investimento meno “crowded” (affollata), sostenuta da valutazioni attrattive».
leggi il numero 169
Pinuccia Parini
Dopo una lunga carriera in ambito finanziario sul lato, sia del sell side, sia del buy side, sono approdata a Fondi&Sicav

