È un momento difficilissimo per chi promuove la transizione energetica e la sostenibilità nel suo complesso. Se fino a pochi anni fa era un argomento unificante, che metteva insieme ideologie anche molto diverse, da una manciata di mesi è cambiato tutto: interi governi hanno messo in dubbio la bontà delle scelte green e la recente elezione di Donald Trump ha visto la maggiore potenza mondiale schierarsi con i negazionisti del cambiamento climatico e contro qualunque causa che avesse un sia pur vago connotato sociale. In tutto ciò, anche a livello popolare, c’è stata una sorta di rivolta contro l’Europa, rea di avere dato una serie di obiettivi per arrivare al net zero.

E di questo cambiamento psicologico tra le persone si stanno accorgendo sulla propria pelle i consulenti finanziari, che sempre più spesso si trovano di fronte a risposte negative da parte dei loro clienti quando propongono prodotti Esg. In un’inchiesta che Fondi&Sicav ha fatto nei mesi scorsi, è stato chiesto alle maggiori reti italiane se ancora credono all’Esg, se pensano di spingere questi strumenti presso il grande pubblico. La risposta è stata quasi unanime: «Noi ci crediamo, sono i clienti che non ci credono più»

A questo punto vale la pena sentire su questo argomento Enrico Giovannini, docente di Statistica economica all’Università di Tor Vergata a Roma. Tra la miriade di cariche che ha ricoperto ci sono la presidenza dell’Istat e il ruolo di Chief statistician dell’Ocse. Attualmente, dopo esserne stato co-fondatore, è direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis), un’associazione nata « per fare crescere la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e per mobilitare la società italiana, i soggetti economici e sociali e le istituzioni allo scopo di realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile». Oggi aderiscono oltre 300 soci, tra i quali Confindustria, Confagricoltura («non certo scatenati sovversivi», commenta Giovannini), la Rete delle maggiori università italiane, l’Anci, la Conferenza delle Regioni e diverse altre associazioni economiche e con scopi umanitari. Infine, Giovannini, in qualità prima di ministro del lavoro e delle politiche sociali nel governo Letta e poi delle infrastrutture e della mobilità sostenibile nel governo Draghi, ha portato avanti il suo impegno in termini concreti, sia in Italia, sia nell’Unione Europea, presso la quale ha influenzato le sue politiche degli ultimi anni. In pratica, è una delle poche persone nel nostro Paese che possono controbattere in maniera razionale e documentata l’ondata di anti-sostenibilità. E fornire le risposte giuste ai consulenti.

Una delle maggiori obiezioni che si fanno alla sostenibilità è l’enorme quantità di costi che si devono sostenere. Si parla di esborsi di 34 trilioni di dollari, circa il Pil degli Usa, per arrivare a net zero entro il 2050.

«La sostenibilità, in particolare quella ambientale, perché sostenibilità è anche sociale, economica e istituzionale, non è un costo, ma un investimento: io non ho trovato uno straccio di studio che dimostri che le imprese italiane (ma non parliamo solo dell’Italia) che hanno investito in sostenibilità abbiano perso rispetto a quelle che non l’hanno fatto. Con ciò si vuole dire che la sostenibilità non costa? Ovvio che costa. Se si vuole avere dei capi non fatti di plastica, si paga un costo, se si vogliono prodotti alimentari di alta qualità, certo che costano, ma normalmente questo processo si chiama “investimento”, come sanno bene le imprese italiane dell’economia circolare. Tutti i dati esistenti di Istat, Unioncamere, Sace e The European House Ambrosetti (Teha), mostrano che tutte le aziende che hanno investito in sostenibilità e in innovazione, cioè in transizione energetica e transizione digitale, hanno aumentato la competitività e la produttività, hanno fatto più profitti e anche creato più occupazione. Il resto “sono solo parole”, come abbiamo mostrato chiaramente nel Rapporto Asvis di primavera dell’anno scorso con gli scenari al 2030 e 2050, costruiti insieme a Oxford Economics, quindi non proprio un gruppo di pericolosi comunisti ambientalisti. La ragione è molto semplice ed è di natura prettamente economica: se si passa a tecniche che riducono il consumo di energia o che usano energie rinnovabili, se si va verso l’economia circolare, integrata con le nuove tecnologie digitali, si vede che la sostenibilità conviene alle società».

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Redazione

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