Matteo Ramenghi, Chief Investment Officer di UBS WM in Italia
TRUMP E IL PROGRAMMA ECOMICO

Non si può dire che Donald Trump non stia seguendo il programma economico delineato durante la campagna elettorale. Ma orientarsi nella nuova agenda economica americana non è comunque semplice.
Alcune apparenti incongruenze, che forse verranno chiarite nei prossimi mesi, generano incertezza sui mercati, i quali tipicamente preferiscono un quadro stabile per poter formulare previsioni.
QUALI CONSEGUENZE?
Trump ha ottenuto un dollaro debole, come auspicava prima della sua elezione, con una svalutazione di quasi il 10% rispetto all’euro. Allo stesso tempo, però, intende difendere il ruolo centrale della valuta statunitense a livello globale. Si tratta di due obiettivi che, almeno in apparenza, non sono facilmente conciliabili.
L’obiettivo dichiarato dei dazi e del dollaro debole è riportare attività produttive negli Stati Uniti. E va riconosciuto che molte aziende, in diversi settori, hanno annunciato nuovi investimenti nel Paese in questa direzione.
Tuttavia, il mercato del lavoro statunitense è già vicino alla piena occupazione e l’amministrazione Trump intende anche ridurre l’immigrazione.
Potrebbe quindi risultare difficile reperire forza lavoro, con il rischio di un aumento delle retribuzioni e, di conseguenza, dell’inflazione.
OBBBA, LA BOZZA DI LEGGE DI BILANCIO
In questo quadro si inserisce la bozza di legge di bilancio One, Big, Beautiful Bill Act (OBBBA) attualmente in esame al Senato degli Stati Uniti, che prevede misure che potrebbero portare a un ulteriore incremento del deficit pubblico.
Il disegno legge prevede di rendere stabili alcune riduzioni delle aliquote fiscali per le imprese varate durante la prima presidenza di Trump, rendere esenti straordinari e mance, aumentare le spese per il controllo delle frontiere e tagliare risorse all’assistenza sanitaria Medicaid.
La riduzione prevista delle spese non sembra compensare gli sgravi fiscali che contiene. E il disegno di legge porterebbe quindi a un ulteriore aumento del deficit.
Bisogna sottolineare che il problema degli elevati deficit non è affatto nuovo. Di fatto il debito pubblico continua a crescere rapidamente dalla crisi finanziaria globale del 2008, mediamente di oltre il 6%. E il rapporto debito/ PIL ha raggiunto il 123% a fine 2023 (il livello più alto dal 1946).
Ciononostante, la capacità degli Stati Uniti di rimborsare il debito non è in discussione, dato che possono contare su mercati dei capitali molto profondi.
L’aumento del debito pubblico potrebbe invece pesare sul dollaro, sul quale manteniamo una posizione di cautela.
Per rendere sostenibili i livelli crescenti di debito, gli Stati Uniti potrebbero ricorrere a diverse forme di repressione finanziaria o fiscale. Vale a dire misure adottate per abbassare i rendimenti del debito pubblico. E quindi i costi di finanziamento, o aumentare le entrate fiscali.
In passato questo è stato fatto su entrambi i lati dell’Atlantico attraverso il quantitative easing. In effetti, la Federal Reserve sta valutando la possibilità di consentire alle banche di detenere Treasury senza deduzioni dai coefficienti di riserva, un passo che potrebbe aumentare la domanda di titoli di Stato e contribuire ad abbassarne i rendimenti.
Da un punto di vista fiscale, il disegno di legge OBBBA contiene alcune disposizioni che suggeriscono l’intenzione di aumentare la tassazione sugli investitori esteri negli Stati Uniti.
Occorre ripetere che questo disegno di legge potrebbe essere modificato; inoltre, le conseguenze delle sue disposizioni possono variare a seconda della giurisdizione degli investitori.
Due misure in particolare hanno attirato l’attenzione degli investitori internazionali:
• sezione 899: introdurrebbe ulteriori ritenute fiscali statunitensi (incrementate del 5% l’anno, fino a un massimo del 20%) su alcuni redditi di fonte statunitense per governi, fondazioni, società e persone fisiche residenti in Paesi che impongono «tasse straniere sleali».
• sezione 4475: introdurrebbe un’imposta del 3,5% sui trasferimenti di denaro da parte di consumatori statunitensi a beneficiari esteri.
Se approvata nella forma attuale, la sezione 899 colpirebbe i dividendi pagati da società statunitensi a soggetti residenti in Paesi che impongono «tasse sleali» agli Stati Uniti. I dividendi delle società americane mediamente sono bassi (1,3% del valore delle azioni). E quindi l’impatto di un’ulteriore ritenuta del 5% sarebbe limitato (0,065% annuo).
Va detto che, a seconda delle circostanze, gli investitori potrebbero recuperare parte delle ritenute, ma nel tempo questa misura potrebbe portare molte società d’oltreoceano a preferire i buyback, quindi acquisti di azioni proprie, rispetto ai dividendi come forma di remunerazione degli azionisti.
In teoria, sulla base dell’attuale bozza, detenere azioni statunitensi direttamente o tramite fondi domiciliati negli Stati Uniti potrebbe ridurre l’esposizione a queste ritenute o facilitarne il recupero. Ma può aumentare l’esposizione alle imposte di successione statunitensi.
Al contrario, possedere azioni americane tramite fondi domiciliati in Paesi terzi (come Irlanda o Lussemburgo) aumenta l’esposizione alle ritenute sui dividendi e potrebbe ridurre la possibilità di recuperarle.
E’ OPPORTUNO RIDURRE L’ESPOSIZIONE AL MERCATO STATUNITENSE?
Molti investitori si domandano se, alla luce di queste potenziali misure, sia opportuno ridurre l’esposizione al mercato americano. Prima di tutto, l’iter parlamentare potrebbe modificare la portata delle disposizioni.
Inoltre, gli Stati Uniti restano il mercato finanziario più rilevante a livello globale, con una governance storicamente favorevole ad azionisti e investitori, che ha garantito performance superiori alla media.
Il mercato azionario americano rappresenta circa il 60% delle borse mondiali. E, a nostro avviso, dovrebbe continuare a costituire una quota significativa, anche fino alla metà dell’esposizione azionaria complessiva.
E IL MERCATO OBBLIGAZIONARIO?
Il discorso è più articolato per il mercato obbligazionario, dove generalmente preferiamo l’esposizione nella propria valuta. Per il momento, la sezione 899 nella sua forma attuale non sembra avere impatto sugli interessi pagati su Treasury, obbligazioni investment grade o depositi bancari.
Se le cose dovessero cambiare gli investitori che preferiscono mantenere l’esposizione a obbligazioni in dollari nel tempo potrebbero però essere portati a sostituire obbligazioni ad alta cedola con titoli a basso coupon (a parità di rating, duration e rendimento a scadenza), per ridurre l’eventuale impatto delle ritenute.
Va inoltre considerato l’effetto della sezione 4475, che introdurrebbe un’imposta del 3,5% sui trasferimenti da conti bancari statunitensi a beneficiari esteri, con possibili ricadute anche sugli investitori internazionali con conti negli Stati Uniti.
Per il momento occorre attendere la discussione al Senato, che potrebbe portare a modifiche sostanziali dell’OBBBA. Ma, considerando l’aumento del debito, la possibile repressione finanziaria e fiscale e le stesse preferenze dell’amministrazione Trump, vale la pena avere una certa cautela nei confronti del dollaro. Per maggiori dettagli si rimanda alla ricerca «From a trade war to a tax war?» del 4 giugno scorso.
Redazione
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