Il primo inquilino della Casa bianca, sin dal giorno della sua elezione, non ha mancato di sorprendere l’opinione pubblica internazionale con una serie di dichiarazioni forti e contrastanti.
Molte sono state le misure promulgate che avranno un impatto sull’economia domestica e globale, così come, in materia di politica interna, potranno acuire i contrasti sociali. Se alla fine si dirà “molto rumore per nulla” nel definire l’operato dell’amministrazione americana, a circa un anno dal suo insediamento, è forse ancora presto per dirlo
Il 5 novembre del 2024 si sono tenute le elezioni presidenziali americane che hanno riportato alla Casa bianca la controversa figura di Donald Trump. Sebbene il suo secondo mandato sia iniziato a gennaio 2025, l’impatto del cambiamento si è fatto sentire immediatamente. Molte sono state le politiche adottate, ma ancora di più gli annunci. Il neo-inquilino di Washington si è distinto per un’azione interna sicuramente molto dura a livello di ordine pubblico, mentre si è impegnato in un ruolo di pacificatore internazionale, che finora ha prodotto qualche risultato promettente.
Il discorso si fa però più complicato da valutare se volgiamo lo sguardo a ciò che davvero interessa agli americani e a un resto del mondo che non può ancora fare a meno di una solida domanda statunitense, ossia l’economia. E in questo campo, sicuramente assegnare un voto al primo quarto del suo mandato non è semplice.
Un feroce protezionismo
In questi mesi si è parlato molto del programma neo-nazionalista e industrialista di questa amministrazione, tesa, da una parte, a varare una profonda deregulation e, dall’altra, a imporre al pianeta un feroce protezionismo. Il tutto per ricalibrare il modello americano sulla manifattura, limitando il più possibile i consumi di beni e servizi importati, ampiamente sussidiati da deficit pubblici di dimensione epocale. I dazi sono stati finora lo strumento principale di questo paradigma e di essi è chiaramente necessario dare una valutazione. Per il resto, i vari programmi immaginifici di riduzione e maggiore produttività della spesa pubblica si sono sostanzialmente incagliati. Il famigerato Doge, che doveva tagliare milioni di posti di lavoro nell’amministrazione pubblica, infatti, ha concluso pochino: messo di fronte alla realtà di un’assoluta impopolarità dei vari provvedimenti che Elon Musk e soci erano intenzionati a varare, lo stesso Trump ha de facto lasciato perdere. O quanto meno il programma di austerity è stato posposto parecchio in là negli anni.
Ma allora, al di là del teatro politico e del giro di vite sull’immigrazione, da che cosa è stato caratterizzato questo 2025?
Un parere che ben sintetizza il quadro attuale viene elaborato da Christian Scherrmann, chief Us economist di Dws:
«L’attività economica negli Stati Uniti ha rallentato nella prima metà dell’anno, riflettendo un indebolimento della spinta nei consumi e negli investimenti delle imprese. Il mercato del lavoro si è ammorbidito, come dimostrano la crescita più lenta dell’occupazione, un tasso di disoccupazione più elevato e una moderazione nella crescita salariale. L’inflazione rimane elevata, con l’indice core Pce stimato al 2,9% ad agosto. Finora, l’impatto potenziale dei dazi sull’inflazione appare attenuato dal lato dell’offerta, ma l’aumento dei costi potrebbe rallentare o bloccare le assunzioni. Nel complesso, l’economia sembra raffreddarsi gradualmente, con una domanda e un mercato del lavoro in fase di progressivo allentamento».
Da queste parole si potrebbe concludere che in fondo ciò che ha contraddistinto questa amministrazione repubblicana è essenzialmente l’immobilismo.
A fine ciclo
Gli Usa, infatti, si configurano oggi come un’economia a fine ciclo che sta cominciando a pagare la sbornia degli eccessi fiscali dell’era Biden: la ripresa post-Covid prese il turbo grazie a una spesa pubblica senza molti freni che, combinata con gli shock esogeni generati dalla difficoltà nel ritornare alla normalità, con la capacità delle aziende del Paese di mantenere i margini di profitto e con la guerra in Ucraina, ha scatenato l’inflazione.
La Federal Reserve, insieme alle principali banche centrali del globo, reagì alzando rapidamente e con intensità i tassi. Quegli anni, dunque, hanno sperimentato il ritorno di un paradigma che non si vedeva dai tardi anni ’70: non a caso uno degli effetti più vistosi di tutto ciò è stato il dispiegarsi di un bull market inaudito sull’oro.
Al termine, però, qualche conto sta cominciando a essere presentato: i risparmi delle famiglie, accumulati durante la pandemia, stanno finendo, mentre anni di costo del denaro relativamente alto stanno mettendo in difficoltà le fasce meno abbienti della popolazione. Contemporaneamente, lo scontro politico sul gigantesco debito pubblico si sta alzando con, a fine ottobre, il secondo shutdown in corso del governo federale più lungo nella storia del Paese.
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Boris Secciani
Nato a Bologna nel 1974, a Milano ho completato gli studi in economia politica, con una specializzazione in metodi quantitativi. Ho cominciato la mia carriera come broker di materie prime negli Usa, per poi proseguire come trader sul forex. Tornato in Italia ho partecipato come analista e giornalista a diversi progetti. Sono in FONDI&SICAV dalla sua fondazione, dove opero come Responsabile dell'Ufficio Studi. I miei interessi si incentrano soprattutto sul mondo dei tassi di interesse e del reddito fisso, sulla gestione del rischio di portafoglio e sull'asset allocation.

