La consapevolezza che, per mantenere gli stessi livelli di vita, una persona non debba più fare affidamento solo sulla pensione pubblica dovrebbe essere un dato acquisito. Tuttavia, le cifre dicono che l’adesione alla previdenza complementare è ancora molto contenuta nel nostro Paese. Fondi&Sicav discute del tema con Simone Bini Smaghi, vicedirettore generale e responsabile della direzione commerciale di Arca Fondi Sgr.
Avete di recente annunciato di avere superato la soglia record di 50 miliardi di euro di masse in gestione. Come giudica questo traguardo?
«È il risultato di un grandissimo lavoro fatto dalle reti che sta continuando anche quest’anno: la raccolta netta a oggi è pari a 3 miliardi di euro, per un totale di 11 miliardi, se si prendono in considerazione anche i flussi a partire dal 2021. Direi che possiamo dirci più che soddisfatti: abbiamo raggiunto l’obiettivo dei 50 miliardi di masse in gestione prima di quanto previsto dal nostro piano industriale. Certamente, c’è stato un importante contributo da parte dei mercati finanziari, che sono saliti, ma l’impegno delle reti di distribuzione è stato fondamentale. Tutto ciò è stato reso possibile, da un lato, dalla qualità dei prodotti, dall’altro, da un modello di servizio al centro del quale c’è una piattaforma tecnologica che permette alle banche di fare consulenza avanzata».
A questa crescita ha contribuito anche la vostra presenza nel ramo della previdenza complementare, dove potete vantare un’esperienza di oltre 25 anni. Come caratterizzerebbe la vostra presenza in questo ambito?
«Il nostro fondo pensione ha raggiunto un patrimonio di quasi 6 miliardi di euro e ha circa 230 mila iscritti. la nostra peculiarità è di avere tantissime aziende associate al fondo: quasi 5 mila. Inoltre, tenendo conto che la previdenza complementare ha due filoni, individuale e collettiva, stiamo investendo molto con un progetto che si chiama Previverso, dove facciamo cultura ed educazione finanziaria presso le aziende, che si traduce sostanzialmente in educazione previdenziale».
Un aspetto sul quale forse occorrerebbe uno sforzo più consistente da parte del nostro Paese?
«Credo che la previdenza sia l’asse portante su cui il Paese dovrebbe puntare. Purtroppo non viene prestata la dovuta attenzione al problema e, nonostante se ne discuta molto, non trova mai una declinazione all’interno delle manovre di bilancio dei governi. È una situazione che ormai si sta ripetendo da anni, indipendentemente dalla composizione degli esecutivi che si sono succeduti: non vengono definiti e promulgati provvedimenti che permettano alla previdenza di diffondersi in Italia.
Eppure, ce ne sarebbe un grande bisogno! Basterebbe pensare al Piano Draghi, che si concentra sul rafforzamento della competitività della Ue per fare fronte alle sfide globali e, tra le varie iniziative da prendere, individua l’unione dei mercati dei capitali, l’accelerazione dell’innovazione e un forte slancio per investimenti congiunti in settori specifici che possono essere realizzati solo con la presenza di investitori di lungo periodo. E, da questo punto di vista, chi meglio dei fondi pensione potrebbe ricoprire questo ruolo? Parlare di previdenza complementare, infatti, non significa pensare solo a pianificare il futuro delle singole persone, bensì quello del tessuto economico italiano e delle imprese che vi operano».
Ma perché in Italia non vengono approvati provvedimenti che aiutino la diffusione dei fondi pensione?
«Nel 2007, il governo Prodi decise di prendere i Tfr delle aziende con oltre 50 dipendenti e di darlo all’Inps tutti gli anni se non indirizzato ai fondi pensione. Questa misura si traduce, in cifre, in oltre 6miliardi di euro che le aziende versano tutti gli anni all’ente di previdenza nazionale, che non iscrive questi importi come debito nei confronti dei lavoratori o dell’impresa. Accade così che questo ammontare venga considerato come un’imposta incassata che, per la contabilità dello stato, non deve registrare alcuna contropartita».
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Redazione
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