A parte un’iniziale esperienza nelle assicurazioni e successivamente in una rete bancaria retail, Paolo Molesini si è sempre occupato di private banking. In Italia è probabilmente fra i manager più longevi ai vertici dell’industria della consulenza finanziaria. Veneto di Feltre, 61 anni, è laureato in economia aziendale presso la Ca’ Foscari di Venezia, che di recente lo ha insignito della massima onorificenza alla carriera, e master in business administration all’Insead Fontainebleau. Dal 2003 è nel gruppo Intesa Sanpaolo dove è stato amministratore delegato di Banca Intesa Private Banking fino al giugno 2015 e poi di Fideuram-Intesa Sanpaolo Private Banking.
Questa intervista, raccolta sul finire dell’anno, è stata anche l’occasione per fare un punto sul mestiere di private banker, oltre che sulle strategie della banca, della quale nei prossimi mesi assumerà la carica di presidente, lasciando i ruoli operativi.
Nei primi nove mesi del 2019 avete registrato un buon andamento della raccolta: come si chiuderà l’anno?
«Posso ovviamente commentare solo i dati pubblici. A fine novembre il gruppo Fideuram (Fideuram, Intesa Sanpaolo Private Banking e Sanpaolo Invest Sim) aveva raccolto 9,8 miliardi di euro dall’inizio dell’anno, di cui oltre 3,2 di risparmio gestito, collocandosi al primo posto nella graduatoria Assoreti. Sulla parte restante del 2019, possiamo dire solo che i numeri saranno molto buoni. Il trend è stato positivo e pensiamo che continuerà anche nel nuovo anno».
Può dire qualcosa in più sul 2020?
«Credo che l’anno sarà molto positivo: per i nostri investitori, anzitutto, e quindi anche per noi. Nel 2019 i clienti hanno guadagnato bene, recuperando anche quanto perso in passato e questo fatto per noi è molto importante. Nessuno sa come sarà il 2020, ma non mi aspetto mercati negativi: il trend sarà sostenuto fin quando non emergeranno alternative alla situazione attuale. In sostanza, finché i tassi saranno negativi, gli investitori istituzionali e molti privati saranno più orientati all’equity: quando il 70% delle obbligazioni dà rendimenti sotto lo zero, non può che essere così e al momento non sarei così convinto che l’equity sia effettivamente più rischioso dei bond a lunga scadenza».
La vostra serie di prodotti “Mercati privati” è una risposta a questa situazione?
«L’idea è cercare strade alternative per ottenere rendimento. Un tempo il nostro cliente aveva il 40% di equity, il resto in cash e bond, che gli garantivano un guadagno ed erano in grado di aumentare quello della quota equity. Oggi le cose sono cambiate e non è pensabile, né accettabile, che il 60% del portafoglio dia rendimento zero. Riteniamo che i mercati privati siano un’ottima soluzione, perché danno un ritorno importante, ancorché non siano liquidi».
Prodotti con meno liquidabilità e più rischio?
«Le nostre emissioni “Mercati Privati” comportano una rinuncia alla liquidabilità, ma non necessariamente maggiore rischio. Si tratta di strumenti molto diversificati che comprendono private equity, private debt, finanziamento a infrastrutture e una parte di real estate. Nel complesso, il rischio è relativamente modesto. Per ridurlo suggeriamo di non puntare tutto su una sola emissione, ma di spalmare l’investimento in mercati privati su più collocamenti, in modo da costruire uno zoccolo duro di questi prodotti che ha una cedola alta e si auto-mantiene. In concreto, l’investitore ha minore liquidabilità la prima volta che investe, dato che l’emissione comprata oggi non produce reddito per circa cinque anni, ma quella acquistata cinque anni fa crea flussi monetari. Pertanto, in fin dei conti, il problema della liquidabilità c’è solo per i primi anni».
La clientela accetta questa rinuncia per avere più rendimento?
«È un elemento che spieghiamo con grande chiarezza: chi decide di investire in questo comparto deve sapere che per almeno otto anni non lo potrà liquidare. Dopodiché i fondi possono essere utilizzati come collaterale di un finanziamento, però il patto è chiaro: per avere un rendimento buono, capace di alzare la media del portafoglio, bisogna accettare che questo investimento, comunque mai superiore al 10% del totale, rimanga fermo per un certo tempo. In concreto, il cliente non ha bisogno di avere una liquidabilità elevata su tutto il portafoglio e, se anche avesse in programma spese importanti, potrebbe accendere un mutuo, che è molto più conveniente».
Stare liquidi costa molto?
«Il costo di mantenere tanta liquidità è elevato. La base del lavoro di consulenza è spiegare l’orizzonte temporale. Se si ha un portafoglio diversificato, con poco rischio, ben articolato, che, supponiamo, renda il 2% netto, si potrebbe essere tentati di dire “fra il 2% e zero, tanto vale che tenga tutto liquido”. Ma se il consulente riesce a focalizzare il ragionamento su un’ottica di 20 anni, dove la differenza fra il 2% annuo e zero si traduce nell’avere il 50% di soldi in più alla fine del periodo, allora diventa evidente che tenere i risparmi liquidi significa togliere il futuro ai figli. Questo ragionamento, che magari sembra banale, è la cosa più difficile da spiegare. Al di là degli aspetti strategici di asset allocation, inoltre, si tratta anche di un tema di rilevanza sociale: nel nostro paese il patrimonio rende poco perché non c’è consapevolezza dell’orizzonte temporale».
Da che cosa dipende?
«È un fatto culturale: c’è una certa diffidenza verso il mondo finanziario e pesano una modesta cultura, una grande abitudine all’incertezza e all’instabilità normativa. C’è anche una storica passione per il mattone, derivante dalla sostanziale stabilità territoriale delle famiglie. Cinquant’anni fa, una famiglia aveva l’80% di probabilità che i figli sarebbero vissuti nello stesso luogo, mentre oggi questa eventualità si è molto ridotta».
Sconsiglia il mattone, quindi?
«Le cose valgono per ciò che rendono. L’immobile in una grande metropoli dà un ritorno, mentre nella campagna settentrionale, o in una piccola località meridionale, è un costo. Il mondo di oggi è binario: alcune cose rendono, spesso in modo crescente, altre perdono valore. E questo fatto vuole dire che le persone hanno bisogno sempre più di consulenza professionale».
Quale tipo di servizi offrite alla clientela milionaria, il segmento Hnwi?
«Offriamo ogni tipo di servizio, abbiamo la possibilità di proporre ogni genere di prodotto, dalla gestione all’investimento immobiliare con finanziamento, dall’art advisory al trust, fino all’ingegneria patrimoniale più sofisticata. Non puntiamo su nessun prodotto specifico, ma sulla qualità della relazione e sulla soddisfazione del cliente. Oggi c’è molta attenzione anche sulle attività di filantropia, il cosiddetto give back, che possiamo offrire in caso di richiesta. Avendo a disposizione le competenze dell’intero gruppo Intesa Sanpaolo, la capacità del nostro private banker è sapere aiutare le persone a prendere decisioni in modo corretto, in tutte le situazioni. Ormai non si gestiscono più le finanze, ma il patrimonio della clientela e l’ottica non è limitata alla massimizzazione del valore, ma al passaggio intergenerazionale, “pensando ai figli”, per dirla in modo semplice».
Redazione
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