a cura di Mark William Lowe

Quando Javier Milei fu eletto nel 2023, il mondo non sapeva bene se ridere, andare nel panico o ammirarlo. Ecco un economista diventato un provocatore televisivo che sventolava una motosega sul palco, citava Hayek e prometteva di «fare saltare in aria» la classe politica argentina. Per alcuni, era un eroe libertario che avrebbe finalmente potuto porre fine a decenni di corruzione e inflazione. Per altri un pericoloso populista sul modello di Trump: troppo radicale, troppo imprevedibile e troppo instabile per un Paese già in condizioni economiche critiche. Le cancellerie europee guardavano la situazione con preoccupazione, mentre gli osservatori di Washington con curiosità. All’inizio gli investitori erano rimasti incuriositi: un uomo senza esperienza di governo avrebbe potuto imporre la disciplina fiscale a una delle economie più instabili al mondo?

AGGRESSIVO E TEATRALE

Il linguaggio di Milei, aggressivo e teatrale, ma insolitamente preciso nelle sue intenzioni economiche, ha attirato libertari e liberisti di tutto il mondo. Anche chi dubitava del suo temperamento ammirava la sua chiarezza. L’Argentina, diceva, era allo sfascio perché lo stato era diventato troppo grande, troppo inefficiente e troppo corrotto. Ma l’entusiasmo si è presto scontrato con la realtà. Milei è entrato in carica dichiarando che «non ci sono soldi» e ha immediatamente tagliato la spesa pubblica, ridotto i ministeri e bloccato i progetti infrastrutturali. L’inflazione, sebbene ancora elevata, ha iniziato a diminuire, il deficit fiscale si è ridotto e i primi investitori sono tornati in Argentina.

Poi sono arrivati i problemi sociali: licenziamenti, proteste, accuse di corruzione contro alti funzionari, tra i quali sua sorella, e un crollo dei risultati elettorali locali. La luna di miele politica era finita. Il problema centrale dell’Argentina rimane lo stesso di sempre: un’economia a doppia valuta. I cittadini spendono pesos, ma risparmiano in dollari, perché nessuno si fida della valuta nazionale. Ogni volta che la fiducia cala, i dollari lasciano il Paese, la Banca centrale brucia le sue riserve e il ciclo ricomincia. Milei ha provato diverse formule: prima una forte svalutazione, poi un graduale adeguamento mensile e infine una banda valutaria controllata. Ogni metodo ha rallentato la crisi, ma nessuno ha ripristinato la fiducia a lungo termine.

L’intervento di Washington

Alla fine di settembre, Washington è intervenuta. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha annunciato un pacchetto da 20 miliardi di dollari a sostegno del peso argentino utilizzando il Fondo di stabilizzazione dei cambi, uno strumento creato negli anni ‘30 e utilizzato raramente. Il piano ha permesso agli Stati Uniti di scambiare dollari con pesos e fornire all’Argentina liquidità temporanea.  Anche gli investitori privati sono stati incoraggiati a contribuire con altri 20 miliardi di dollari. Per alcuni giorni i mercati si sono rilassati, il peso si è ripreso e l’ottimismo è tornato. Ma negli Stati Uniti l’annuncio ha scatenato rabbia. I sostenitori dell’ “America First” hanno accusato il presidente Trump di spendere i soldi dei contribuenti per sostenere un governo straniero. Gli agricoltori hanno protestato perché la Cina acquistava soia dall’Argentina, invece che dagli Stati Uniti, e i democratici hanno affermato che il piano avvantaggiava principalmente i grandi investitori americani esposti al debito argentino. La Casa bianca ha difeso l’operazione come una questione di interesse strategico, per mantenere l’influenza in America Latina e impedire alla Cina di consolidare i suoi legami finanziari nella regione. Gli economisti sono stati meno diplomatici: fornire dollari a un paese per sostenere la sua valuta, hanno osservato, è la definizione stessa di un salvataggio finanziario.

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Redazione

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