In una fase di mercato in cui la diversificazione diventa più che mai importante, Fondi&Sicav ha discusso con Simon Morton-Grant, portfolio manager del fondo Ct (Lux) Japan Equities di Columbia Threadneedle Investments, delle opportunità che il mercato giapponese potrebbe offrire agli investitori.

Analizzando la performance dei mercati dall’inizio dell’anno, si nota che, in termini relativi, in Europa c’è stata una maggiore espansione delle valutazioni, fatto che non si è verificato in Giappone, dove c’è stato perlopiù un derating. Quali sono secondo lei i motivi?

«Riteniamo che il contesto macroeconomico abbia di fatto oscurato i fondamentali del Paese. Nello specifico, sembra che i dazi americani possano colpire anche il Giappone, ma il nostro parere è che, se così fosse, l’impatto sarebbe contenuto rispetto alle altre maggiori economie. Le ragioni di ciò sono riconducibili all’estesa attività off-shoring e alle relazioni di carattere geopolitico. Ci sono aziende, come Honda e Toyota Motor, che già negli anni ’80 hanno costruito i loro impianti produttivi negli Stati Uniti, dove vendono ciò che producono in loco.  Inoltre, per quanto il Giappone sia un mercato legato al ciclo globale dell’economia, che è minacciata dai dazi, pensiamo che la debolezza dello yen possa essere un fattore positivo per le aziende esportatrici. Ma, soprattutto, crediamo che i fondamentali del Giappone godano di buona salute e l’andamento degli utili societari ne sono una testimonianza: il fatturato e i profitti sono in crescita, i bilanci sono solidi e si sta assistendo a un continuo riacquisto di azioni proprie parte delle imprese».

Siete quindi fiduciosi sull’andamento dell’economia giapponese?

«Le nostre aspettative sono che, nel 2025, si assista a un’accelerazione grazie al processo di reflazione in cui il Paese è entrato, alla crescita dei salari, alla corporate governance e a una ripresa dell’attività di M&A. In aggiunta, a differenza del passato, è verosimile che gli utili delle aziende domestiche fungano da sostegno al mercato».

Quali effetti potrà avere la politica dei dazi americani?

Alla luce della decisione del presidente Trump di introdurre una moratoria di 90 giorni sui dazi, annunciati lo scorso 2 aprile, ci attendiamo che si apri un tavolo di trattative tra i due paesi. Per il momento possiamo aspettarci una maggiore volatilità del mercato e riteniamo che questa sia una grande opportunità per trarre vantaggio dalla dislocazione dei prezzi delle azioni. I fattori sottostanti specifici del Giappone che ci entusiasmano sono ancora in gioco (le riforme della corporate governance, l’inflazione salariale e la ripresa delle attività di fusione e acquisizione) e ci aspettiamo che sostengano il mercato. Abbiamo approfittato  di questa fase per aggiungere nei portafogli aziende stabili e orientate al mercato domestico, diminuendo al contempo l’esposizione ciclica nei settori industriale e finanziario. Come facciamo sempre in contesti difficili, riduciamo l’esposizione a nomi a bassa convinzione per preservare il valore dei patrimoni dei clienti e acquistiamo società di alta qualità a prezzi interessanti.

Quindi, nel contesto attuale, non ritenete probabile che il possibile rafforzamento dello yen possa inibire una ripresa del mercato?

«Non pensiamo che un rafforzamento della divisa possa condizionare l’agenda della Bank of Japan nel perseguire un ciclo virtuoso in cui l’inflazione e i salari riprendano a salire. Non siamo esperti macro e, di conseguenza, non facciamo previsioni sulla direzionalità dei cambi, ma crediamo che due aumenti dei tassi quest’anno, rispetto a una Federal Reserve che probabilmente si muoverà in senso opposto, dovrebbero favorire lo yen senza che ciò comprometta la ripresa della borsa. Il Giappone è entrato in una fase di reflazione, con l’indice dei prezzi al consumo che, nell’ultimo anno, è stato sopra il 2%. E lo stesso è avvenuto in materia di incrementi salariali, che potrebbero toccare nuovi record durante le prossime negoziazioni (shunto). Ci aspettiamo che la normalizzazione della politica monetaria della BoJ continui».

La riforma della corporate governance è stato uno stimolo estremamente importante per le aziende giapponesi. È un’onda lunga che sta coinvolgendo tutto il mercato?

«Sì, è un fattore che riguarda le società nella loro totalità, dalle grandi alle piccole capitalizzazioni. Il saggio di rendimento sul capitale proprio (Roe) è salito del 130% dal 2009, un trend che lo avvicina ai valori europei e americani. Le imprese hanno iniziato a investire in iniziative sostenibili, ricerca e sviluppo e capitale umano. Hanno anche incrementato i dividendi, più che raddoppiati nell’ultimo decennio, e il riacquisto di azioni proprie, che è cresciuto di ben nove volte dall’introduzione della Abenomics nel 2012. Infine, si sta assistendo anche alla dismissione delle partecipazioni incrociate, una struttura societaria che ha per molto tempo caratterizzato le aziende giapponesi, limitandone l’efficiente utilizzo del capitale. In sintesi, si è dinanzi a un processo di riforme che continua a permettere un ulteriore accrescimento del Roe».

La liquidazione delle partecipazioni incrociate è iniziata, però, parecchi anni fa. State notando un’accelerazione in questo senso?

«Continua perché c’è una maggiore attenzione al ritorno per gli investitori. Molti clienti ci chiedono se si è alla fine di questo processo, rinvigoritosi negli ultimi due anni, ma secondo noi si è solo all’inizio. Le società giapponesi sono più profittevoli rispetto agli anni passati, capaci di tradurre in modo molto più efficace i profitti operativi in utile netto e stanno remunerando gli azionisti come mai avevano fatto in passato. E anche questa è una tendenza che prevediamo proceda con un’attenzione sempre maggiore alla gestione efficiente dei bilanci e alla corporate governance».

Ci sono settori particolari che, in questa direzione, hanno dimostrato di essere più proattivi?

«Anche in questo caso, si può affermare che si tratta di un processo che coinvolge l’intero universo del mercato. Ultimamente, c’è un forte interesse da parte degli investitori nei confronti delle trading company, un comparto che spesso funge da catalizzatore quando ritorna l’attenzione nei confronti del Giappone. In linea generale, direi che è il settore finanziario quello in cui siamo in sovrappeso, soprattutto nel comparto assicurativo, dove la liquidazione delle partecipazioni incrociate è prevalente. Inoltre, abbiamo un sovrappeso anche nel segmento industriale, nel quale beneficiamo delle riforme in atto».

Tornando alla corporate governance, che cosa ha fatto sì che questa volta si stiano raccogliendo risultati significativi?

«Negli anni ’80, il Giappone era un paese che produceva a basso costo e l’ottimismo nel mercato era a livelli incredibili; poi ci sono stati lo scoppio della bolla immobiliare e il collasso dei prezzi delle case: un momento di crisi del modello di sviluppo che ha aperto le porte alla Cina, pronta a diventare la nuova manifattura del mondo. Fu proprio allora che si assistette a un grande cambiamento di mentalità da parte delle aziende nipponiche, che diventarono molto più difensive e decisero che, dinnanzi a ulteriori momenti di crisi, fosse opportuno detenere un’elevata liquidità nei propri bilanci. E questo atteggiamento è continuato per 20-30 anni. È vero, ci sono stati tentativi di riforma della corporate governance negli anni ’90, che non hanno funzionato, ma il rally che si è visto dai minimi del 2008 ai massimi del 2024 è stato indiscutibilmente guidato da un miglioramento dei fondamentali delle società e dall’acquisizione di una maggiore consapevolezza che, per sopravvivere, fosse necessaria una migliore gestione del capitale. Attualmente, nei bilanci delle imprese è parcheggiato un ammontare di liquidità pari al 40% del Pil giapponese: è necessario che questa cassa venga impiegata in modo ottimale per fare sì che le aziende possano continuare a svolgere un ruolo sui mercati».

Le aziende giapponesi hanno superato la sindrome di Galapagos che le ha spinte, in passato, a sviluppare tecnologie che si sono rivelate con il tempo rivoluzionarie e durature solo per il mercato autoctono?

«È vero, c’è stato un periodo in cui le imprese giapponesi erano leader a livello mondiale in diversi ambiti, ma poi sono sprofondate in quelli che sono stati i “decenni perduti”. Oggi, però, ci sono settori in cui le aziende nipponiche sono all’avanguardia, come nel campo dell’automazione: cinque delle prime 10 società globali in questo segmento sono giapponesi e detengono il 50% della quota del mercato. Sono realtà innovative in campo tecnologico, concentrate sulla ricerca e sviluppo, determinate a colmare i gap produttivi di una popolazione che invecchia e con una forza lavoro altamente qualificata. Esse abbracciano molteplici ambiti di attività: dalla logistica, all’alimentare e al farmaceutico. Keyence, un titolo che deteniamo nel portafoglio, è un classico esempio di questo trend: oltre il 70% dei loro prodotti detiene la quota di mercato più elevata nell’automazione dei processi».

Si sta assistendo a un risveglio dell’attività di M&A in Giappone. Quali sono le motivazioni?

«Pensiamo che questo sia uno dei catalizzatori per cui vale la pena considerare un investimento in Giappone ed è il risultato di un’evoluzione dei cambiamenti di cui si è parlato, ma soprattutto nasce dalla necessità di ristrutturare business che hanno buone potenzialità da sviluppare. Il mercato rimane ancora molto frammentato, (il 55% è sopra la media globale) e diversi investitori attivisti ritengono che quest’ultima sia un’opportunità da cogliere».

 

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