“I dati della scorsa settimana non riflettono accuratamente lo stato dell’economia statunitense. Non crediamo di trovarci sull’orlo della recessione”. Weekly market outlook di Steven Bell, Chief Economist EMEA di Columbia Threadneedle Investments
Il mercato del lavoro statunitense è stato molto rigido. Pur osservandolo da diverse angolazioni, il messaggio è sempre lo stesso: c’è una forte domanda di lavoratori e un’offerta insufficiente. Sappiamo bene cosa succede quando la domanda supera l’offerta: i prezzi (in questo caso i salari) salgono. Ed è esattamente quello che è successo. L’inflazione salariale ha, infatti, subito un’accelerazione per gran parte dello scorso anno.
Tuttavia, i dati più recenti hanno registrato un rallentamento. Come possiamo darne una spiegazione?
Rispetto al quadro generale, la scorsa settimana abbiamo avuto dati contrastanti e sorprendenti. La maggior parte delle persone, me compreso, riteneva che l‘economia statunitense stesse rallentando.
La Federal Reserve ha aumentato aggressivamente i tassi di interesse, il mercato immobiliare è in profonda recessione. E, sebbene i consumatori dispongano dei cosiddetti “salvadanai di Covid”, quest’ultimi sono stati abbondantemente utilizzati. Mentre altri beni sono stati erosi dall’inflazione.
In effetti, sono andati persi numerosi posti di lavoro e i licenziamenti si sono estesi ben oltre i tagli annunciati dalle aziende tecnologiche.
Da un certo punto di vista, i recenti licenziamenti sono stati i più alti dalla crisi finanziaria globale (escluso il periodo del Covid). Eppure, nel mese di gennaio, sono stati apparentemente creati mezzo milione di posti di lavoro. E anche i dati di contesto si sono rivelati tutti forti: le ore lavorate sono aumentate, la disoccupazione è scesa ulteriormente e un numero maggiore di persone è entrato a far parte della forza lavoro.
Poco dopo che questi dati hanno stupito il mercato, un’indagine molto seguita sui servizi statunitensi ha registrato un balzo, in netto contrasto con gli altri sondaggi.
Che cosa sta succedendo dunque?
Guardando innanzitutto ai salari, siamo rimasti sopresi dal rallentamento dell’inflazione salariale. Quest’ultima, infatti, è ancora forte, almeno in termini di liquidità, al 5% e oltre, ma è rallentata rispetto all’inizio del 2022. L’interpretazione più probabile è che si sia verificata un’impennata iniziale al termine del lockdown, quando le aziende hanno cercato disperatamente di assumere alcuni dei 20 milioni di lavoratori licenziati durante il Covid. I ristoranti e gli alberghi, ad esempio, avevano molta domanda, potevano aumentare i prezzi e si sono ritrovati a competere duramente per il personale.
Possiamo quindi affermare che il mercato del lavoro è ancora caldo, ma ha smesso di “bollire”. Nel frattempo, ovviamente, l’inflazione è scesa grazie all’allentamento dei prezzi delle materie prime e dei vincoli dell’offerta. Se questo è vero, la Federal Reserve dovrà continuare ad alzare i tassi d’interesse fino a quando il mercato del lavoro non si sarà adeguatamente raffreddato.
Come contestualizzare, quindi, l’enorme balzo in avanti dell’occupazione della scorsa settimana? Se descrivessimo il numero come un aumento dello 0,3% dell’occupazione, non sembrerebbe così spaventoso. È bene poi sottolineare quanto gennaio sia sempre un mese difficile da valutare. Quest’ultimo mese, ad esempio, è stato caratterizzato da un clima molto freddo in regioni chiave come la Florida. E i fattori stagionali sono complicati e abbiamo molti afflussi tecnici.
Ma che dire di questi sondaggi contrastanti? È chiaro che i diversi settori dell’economia statunitense si stanno muovendo a ritmi molto diversi. I produttori stanno lottando per ridurre le scorte. L’edilizia residenziale è veramente molto debole, anche se i costruttori si sono affrettati a completare le case prima che i prezzi scendessero ulteriormente. Al tempo stesso, molte aree di servizio sono in piena espansione. Considerando il clima, e i normali problemi di misurazione dell’economia di questo primo periodo dell’anno, il risultato è stato quello di ottenere segnali contrastanti.
Dinanzi a questo scenario dai segnali contrastanti, riteniamo che i dati della scorsa settimana non riflettano accuratamente l’economia statunitense. Non siamo in presenza di un boom economico. Ma chiaramente non siamo nemmeno sull’orlo della recessione. Avendo ridotto il ritmo dei rialzi dei tassi a 25 punti base a riunione, la Fed non è ora in grado di interrompere la propria politica restrittiva, né tanto meno di passare a tassi più bassi.
Possiamo quindi aspettarci una ripresa del mercato ribassista delle obbligazioni? Non ne siamo così sicuri. I tassi reali, misurati dal rendimento dei titoli del Tesoro protetti dall’inflazione, ci sembrano generosi – ben oltre l’1%. E poiché la Fed ha chiarito che intende ridurre l’inflazione – e il mercato le crede – le obbligazioni convenzionali appaiono ragionevolmente interessanti.
Per quanto riguarda i titoli azionari, continuiamo a credere che sia necessaria una compressione dei margini, quale parte del processo per riportare l’inflazione in modo sostenibile al 2%. E che, di conseguenza, sarà probabilmente necessaria una recessione. Recessione che dovrebbe essere lieve e di breve durata. Ma che toglierebbe comunque il peso agli asset di rischio.
Redazione
La redazione di Fondi & Sicav è un team di esperti e appassionati di finanza, specializzati nell’analisi e nell’approfondimento di fondi comuni, SICAV e strumenti di investimento. Con un approccio chiaro e aggiornato, forniscono contenuti di qualità per guidare i lettori nelle scelte finanziarie più consapevoli.

