“Riteniamo sia ragionevole essere cauti anche se i titoli più costosi sono tornati ormai su livelli più bassi.” Enguerrand Artaz, gestore di La Financière de l’Echiquier

L’inflazione ha ormai raggiunto dei livelli che non si vedevano da diversi decenni. La Fed ha dato avvio a una delle strette monetarie più violente della sua storia, la guerra infuria nell’Est Europa e il petrolio si attesta ben al di sopra dei 100 dollari al barile. Eppure, il mercato azionario dimostra una calma sorprendente, soprattutto negli Stati Uniti dove l’S&P 500 – avendo messo a segno un rimbalzo di oltre l’8% in meno di due settimane – è ora solo al 5,5% dai massimi storici toccati a fine dicembre.

Esuberanza irrazionale” o segno che gli investitori stanno un po’ per volta tenendo conto della nuova situazione monetaria senza rimettere drasticamente in discussione il loro posizionamento?

Guardando alla storia recente, saremmo tentati di sostenere la seconda ipotesi e di credere nella continuazione del rally rialzista. In effetti, nelle precedenti fasi di stretta monetaria, e specialmente all’inizio del ciclo, i mercati hanno avuto tendenza a fare molto bene. Così, nei 18 mesi successivi al primo rialzo dei tassi, l’S&P 500 è cresciuto del 33% durante la stretta del 1988, del 19% durante quella del 1994, del 10% nel 2004 e del 17% nel 2015.

Il quadro è tuttavia meno roseo se guardiamo i periodi precedenti. Le fasi di inasprimento degli anni ’70 e dei primi anni ’80 difficilmente sono state contrassegnate da performance positive dei mercati azionari anche se la causa ne va attribuita più agli shock petroliferi e alle loro conseguenze economiche che alla sola politica monetaria.

Il caso della stretta del 1986-87 è più interessante in quanto ha portato al crollo dell’ottobre 1987, il famoso “lunedì nero”, in cui gli indici persero quasi il 30% in pochi giorni, con un’esacerbazione del fenomeno dovuta a un tecnicismo inerente alle assicurazioni di portafoglio. Il contesto, in qualche modo, ricorda la situazione attuale: una crescita economica solida, un’inflazione elevata, un aumento dei tassi di interesse e poi dei tassi di riferimento delle banche centrali e, infine, mercati azionari in bolla con valutazioni elevate dopo un forte rally rialzista.

Per molti versi, tuttavia, la situazione attuale è molto diversa dalle strette monetarie “indolori” degli ultimi decenni. L’inflazione è ai massimi degli ultimi 40 anni, le valutazioni dell’S&P 500, ancorché moderate dopo i record dell’estate del 2021, sono comunque del 20% superiori alla mediana di lungo termine e anche al livello medio che precede gli ultimi tre cicli di stretta monetaria; e la Fed si accinge a una stretta senza precedenti.

In effetti, finora, le strette monetarie erano essenzialmente consistite in movimenti più o meno rapidi dei tassi ufficiali. Tuttavia, dopo la crisi del 2008 e l’importanza assunta dalle misure di Quantitative Easing – cioè i piani di acquisto di asset – i cicli di inasprimento monetario includono ormai un intervento sul bilancio della banca centrale.

Prima di tutto ponendo fine agli acquisti di asset e riducendo poi le dimensioni del bilancio non reinvestendo gli asset in scadenza – o, teoricamente, attraverso vendite nette di asset. Poiché i mercati dipendono molto dall’abbondante liquidità fornita dai programmi di QE, diventano ancora ancora più vulnerabili quando questi finiscono.

In questo senso, è lecito interrogarsi sull’attuale solidità dei mercati azionari e del mercato statunitense, in particolare. Una grande cautela ci sembra ragionevole anche se i titoli più costosi sono tornati ormai su livelli inferiori. L’adagio di mercato “dont’ fight the Fed” si è rivelato molto pertinente negli ultimi anni e gli investitori farebbero bene a non dimenticarlo.

 


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Redazione

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