Il prossimo seminario estivo dei banchieri centrali potrebbe assomigliare a un falò e non più a una veglia d’armi. Alexis Bienvenu, gestore di La Financière de l’Echiquier
Lo scorso 26 agosto, il Presidente della FED saliva sul palco del Jackson Hole Lodge, il campo estivo per banchieri centrali organizzato nel Parco nazionale di Grand Teton (Wyoming).
In soli 9 minuti mandava i mercati al tappeto dichiarando di voler perseguire una politica monetaria di sudore e lacrime per controllare l’inflazione che, a suo dire, avrebbe provocato molta sofferenza ancora a lungo termine.
Nel corso delle sei settimane successive l’indice S&P 500 perse il 12%. In due mesi, il decennale statunitense passò dal 3% a più del 4,2%. Nel frattempo, l’attività immobiliare statunitense cedeva terreno a un ritmo storico e quella manifatturiera sprofondava sotto la soglia di espansione.

A distanza di cinque mesi, il 1° febbraio 2023 lo stesso Presidente interviene al termine di un comitato di politica monetaria a Washington. In linea con il piano di battaglia annuncia l’ennesimo rialzo dei tassi, portando il limite superiore del tasso di riferimento al 4,75%. E lasciando intendere che non è finita. Inoltre, il bilancio della banca centrale si sta riducendo a tutta velocità.
Eppure, i mercati azionari e obbligazionari applaudono e altrettanto fanno il giorno successivo, al termine della riunione della Banca Centrale Europea che aumenta il tasso di riferimento di 50 punti base e annuncia un simile rialzo per il mese prossimo, portando implicitamente il tasso al 3% a marzo a fronte di un -0,50% a luglio del 2022.
Anche se paradossale i mercati sembrerebbero apprezzare le politiche monetarie più dure?
Sì, ma solo a una condizione: che si abbia l’impressione di aver vinto la lotta all’inflazione. E che si possa ipotizzare un’attenuazione della guerra monetaria, anche se i banchieri centrali non ne possono ufficialmente fare menzione.
È quanto il mercato percepisce in questo momento: una vittoria imminente contro l’impennata dei prezzi che già si profila nella traiettoria dell’inflazione statunitense, passata dal 9% dello scorso giugno al 6,5% di dicembre. La situazione è meno palese in Europa anche se l’inflazione è arretrata dal 10,6% di ottobre all’8,5% stimato per gennaio. E l’effetto base per i mesi a venire, in coincidenza con il primo anno di guerra in Ucraina, si preannuncia meccanicamente ribassista.
E poco importa dei richiami alla prudenza dei banchieri centrali, delle loro previsioni ancora molto elevate per l’inflazione o dei moniti della storia! Il mercato intende festeggiare questa vittoria e, dopo l’inverno monetario, sta uscendo dalla tana in cui era stato costretto da Jackson Hole.
Celebrare è rischioso finché non si venderà la pelle dell’orso del parco di Jackson Hole. Ma nel mercato paga l’agire per primi a costo anche di correre dei rischi, lasciando soltanto le briciole ai più prudenti.
Tanto più che il rischio non è poi così grande. Se nei prossimi mesi l’inflazione tornerà ad attestarsi a un livello più ragionevole, ancorché lontano dal 2% in base all’opinione prevalente, i tassi di riferimento e quelli a lungo termine dovranno arretrare dato che i tassi reali – vale a dire i tassi nominali corretti per l’inflazione – non possono rimanere positivi a lungo nei nostri sistemi che reggono solo grazie al debito.
L’onere degli interessi reali diventerebbe per tutti insostenibile, per i governi in primis. Ora, con i tassi di riferimento che dovrebbero raggiungere un picco del 5% circa negli Stati Uniti, in caso di una diminuzione duratura dell’inflazione al di sotto di questo livello – come starebbe per accadere – i tassi di interesse reali a breve diventerebbero positivi.
La Fed difficilmente potrebbe esimersi dal reagire. Fortunatamente ha un certo margine di manovra dato che i tassi a lungo termine sono solo al 3,5%. Su questo segmento della curva siamo ancora ben distanti dalla soglia di un’inflazione troppo bassa rispetto ai tassi.
Pertanto, a meno che non subentrino altre preoccupazioni, quali le conseguenze del rallentamento economico che essi stessi hanno innescato, nel caso in particolare delle azioni, il prossimo seminario estivo dei banchieri centrali potrebbe assomigliare a un falò e non più a una veglia d’armi. Sarà per loro giunto il momento, così come per il mercato, di uscire dalla tana di Jackson Hole. E di scalare con entusiasmo le vette del “Gros Ventre Range”.
Redazione
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