A colloquio con Donatella Principe, director market and distribution strategy di Fidelity International.

I mercati finanziari continuano la loro corsa al rialzo, nonostante le incertezze e un contesto politico e geopolitico che diventa sempre più complesso. Che cosa sta succedendo?

«Ci sono due osservazioni che vorrei fare in merito. La prima è che quanto successo negli ultimi 10 anni ha cambiato le regole del gioco e il mercato è ancora alla ricerca di un equilibrio. Tutto ciò che veniva dato per scontato oggi ha smesso di essere tale e non necessariamente le relazioni del passato rimangono valide nel presente. La seconda riflessione è che gli investitori tendono ad avere una visione deterministica, con un rapporto di causa ed effetto che è dato per scontato. Ad esempio, il fatto che gli indici salgano, nonostante le guerre, può fare pensare che alle borse la geopolitica non interessi, ma dal 2022, quando ci fu l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, si è assistito a una ripresa dell’inflazione e a una violenta e repentina stretta monetaria. Le obbligazioni sono collassate, perdendo più dei mercati azionari, e il settore della difesa americano è oggi ai massimi. Quando le piazze finanziarie hanno ripreso i loro corsi al rialzo, lo hanno fatto già incorporando il premio per il rischio legato a fattori geopolitici. Non va poi trascurato che ci sono altri modi nei quali i mercati esprimono le loro view ed eventuali preoccupazioni. E, da questo punto di vista, non è un caso che l’oro abbia toccato i nuovi massimi storici assoluti: è il riverbero di uno scenario caratterizzato da rischi geopolitici».

È la fuga verso un bene rifugio?

«Direi che incorpora la volontà di diversificare fuori dal dollaro, la divisa di un paese con un indebitamento crescente, e, indirettamente coinvolto nei conflitti in corso. Ma non c’è solo questo aspetto. Se si guardano i flussi sul metallo giallo, si può notare che, sino allo scorso settembre, i fondi Etf sulle materie prime preziose sono stati venduti. Allora perché l’oro ha continuato a salire? Per gli acquisti delle banche centrali che lo comprano a causa del rischio geopolitico. Si è creata una situazione di sfiducia reciproca tra i paesi. La decisione drammatica degli Stati Uniti di congelare le riserve monetarie in dollari della Russia ha poi allarmato tutte le nazioni emergenti, perché, se l’America applica una visione manichea del mondo, c’è la possibilità che un paese si possa trovare a sua volta sanzionato allo stesso modo e, di conseguenza, sia impossibilitato ad accedere alle proprie riserve in valuta statunitense. Ma la volontà di diversificazione, di cui l’oro ha beneficiato, non è una tendenza recente: negli ultimi 10 anni le riserve in dollari presso le istituzioni centrali sono scese dal 66% al 58%».

Ma i mercati azionari continuano a salire…

«Sì e non stupisce in un contesto nel quale dall’America alla Cina e all’Eurozona il focus dei policy maker si è esplicitamente spostato sulla crescita. Peraltro, l’attuale rally dell’azionario resta ancora un baby-rally».

È preoccupata per il contesto macroeconomico?

«Non intravedo particolari criticità. Vanno bene i consumi, che sono il motore della crescita, e le politiche fiscali e monetarie globali rimangono espansive. L’economia mondiale cresce soprattutto grazie ai paesi emergenti, in particolare all’Asia e, di conseguenza, alla Cina. Il Pil europeo è previsto sotto potenziale e, a dire la verità, anche il moltiplicatore del debito americano è negativo. Bisogna rimarcare, inoltre, che, mentre i consumi crescono, il settore manifatturiero soffre nelle economie avanzate».

A proposito di crescita, qual è la sua lettura delle recenti misure annunciate dal governo cinese?

«La Cina continua a crescere e, anche di recente, il governo ha confermato l’obiettivo del 5% per il Pil, grazie ai manufatti che esporta.  Nel 2015 il Paese ha lanciato il progetto Made in China 2025 per diventare la fabbrica manifatturiera avanzata del mondo e già oggi questo target è stato raggiunto con un anno in anticipo. Ciò che manca all’attività economica sono i consumi, che crescono, ma non brillano: le famiglie preferiscono ripagare i loro debiti o risparmiare. Non c’è, da questo punto di vista, un problema di liquidità, bensì di fiducia che è il 15% più bassa di quanto non fosse durante la crisi asiatica nel 1998. Ma perché, come tanti chiedono, la Cina non utilizza alcun bazooka per stimolare i consumi? Perché non vuole usare la leva finanziaria, ma ciò non significa che non vengano adottate misure che possano sortire lo stesso effetto: è dal 2022 che vengono lanciati pacchetti monetari espansivi in controtendenza rispetto alla stretta globale. La cosa fondamentale è che avvenga la stabilizzazione del mercato immobiliare. Per fare sì che ciò sia realizzabile sono necessarie misure sul lato dell’offerta impossibili fino a quando a dominare il settore immobiliare saranno rimasti gli sviluppatori che hanno generato la bolla: il governo non ha fatto proprio il principio occidentale “too big to fail”. In altre parole, la Cina non ha intenzione di favorire alcun azzardo morale».

Si è quindi in una fase di stallo?

«No, perché negli ultimi mesi si è assistito al fallimento di alcuni sviluppatori immobiliari, rilevati a loro volta da società pubbliche che, gradualmente, stanno portando a una razionalizzazione del mercato, con interventi anche da parte dei vari regolatori. La borsa ci ha creduto e c’è stata una ripresa dei corsi che poi si è fermata perché gli investitori chiedevano ulteriori interventi. Hanno continuato a farlo sino a poco tempo fa e Pechino ha risposto con un pacchetto di misure monetarie, fiscali e di diretto supporto al settore immobiliare, provocando un fortissimo rally dell’azionario che ha colto completamente impreparata la gran parte degli investitori che avevano smesso di guardare alla Cina. Tra le misure annunciate, c’è anche la ricapitalizzazione delle banche (1.000 miliardi di  yuan), tassello fondamentale per permettere la circolazione della liquidità. Recentemente è stato raddoppiato a 4 mila miliardi di yuan il supporto al settore immobiliare tramite i governi locali. E la People Bank of China ha lanciato due schemi da 800 miliardi di yuan per sostenere il mercato azionario. Sebbene non ci siano ancora “numeri” sull’azione fiscale, le dichiarazioni del ministro delle finanze sono costruttive per tre ragioni: è stato confermato il tasso di crescita del Paese, c’è la volontà del governo di intervenire e di non essere nel panico. Penso che l’amministrazione abbia la forza sufficiente per ulteriori interventi».

Non c’è il rischio che in Cina accada quanto avvenuto in Giappone trent’anni fa?

«Ci sono diverse differenze di fondo. Innanzitutto le dimensioni economiche della nazione, il cui Pil è il 33% di quello mondiale, e una molteplicità dei fattori. In Giappone, negli anni ’90, si è cercato di aumentare i consumi durante una deflazione causata proprio dal loro calo, senza avere altri strumenti per sostenere la crescita. In Cina è diverso.  Anche qui si parla di deflazione, ma, se si analizza la componente core del Cpi, si può notare che è sempre stata positiva. Il problema è emerso a livello d’inflazione complessiva, sulla quale pesa fortemente il prezzo della carne di maiale, di cui ingenti quantità sono state immesse sul mercato facendone scendere il valore. In aggiunta, e anche in questo caso si parla di indice di prezzi al consumo complessivo, un’altra componente al ribasso è stata l’energia, sia perché Pechino compera petrolio dalla Russia (e dall’Iran) a prezzi non di mercato e in renminbi, sia perché ha diversificato le sue fonti di produzone energetica con le rinnovabili, non dipendendo così in modo massivo dall’oro nero. Questa è la storia della deflazione in Cina, dove i consumi sono saliti del 23% dal minimo del Covid. Nel frattempo, il Paese è diventato la fabbrica del mondo: se si prendono le prime cinque nazioni produttrici, il Dragone detiene il 52% del mercato, vanta un surplus commerciale con 172 stati a livello globale ed è il principale partner commerciale di oltre 120 paesi. È stata utilizzata la sovracapacità produttiva per vincere la guerra commerciale contro Stati Uniti e Europa. L’essere in grado  di generare surplus commerciale a livelli elevati permette alla nazione di incamerare sufficiente liquidità e tasso di crescita per aspettare che i consumi, attraverso il recupero della fiducia, diventino il motore dell’economia. Questa è la grande differenza con il Giappone, dove neppure i tassi a zero riuscirono a stimolare il Pil».

Continuate a raccomandare la Cina?

«Corretto, e lo facciamo per tre ragioni. La crescita della Cina si traduce in un aumento degli utili, quest’anno più del doppio della media mondiale e il triplo nel 2025. Le azioni trattano a valutazioni a forte sconto rispetto alla media storica e ai principali mercati internazionali. E, da ultimo, il livello di payout per gli azionisti, che in questi anni è raddoppiato».

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Pinuccia Parini

Dopo una lunga carriera in ambito finanziario sul lato, sia del sell side, sia del buy side, sono approdata a Fondi&Sicav