Natale Borra, Head of Distribution Italia, Fidelity International
Sul mercato si è assistito a un aumento della volatilità. In tale contesto come si protegge il portafoglio?
“È un inizio d’anno sicuramente complicato, con l’attenzione che si sta concentrando sul conflitto in Ucraina ma, in realtà, la vera fase di aumento della volatilità si è registrata nella primissima parte dell’anno: il mercato obbligazionario ha iniziato a soffrire per l’aumento dei tassi d’interesse, mentre quello azionario ha visto i titoli value sovraperformare le azioni growth, che avevano precedentemente trascinato gli indici al rialzo dai minimi della crisi Covid-19. Pensiamo che oggi nei portafoglio si debba riflettere una preferenza verso l’asset class azionaria a livello globale per il suo profilo rischio/rendimento più efficiente, con un’esposizione importante al dollaro e quindi agli Stati Uniti e ai titoli di elevata qualità, ma senza caratterizzazione di stile d’investimento. All’interno dell’esposizione azionaria si innestano temi di lungo periodo come, ad esempio, quello della sostenibilità vista non solo come necessità da un punto di vista ambientale, ma anche strategico, soprattutto per quanto riguarda l’indipendenza energetica. Per quanto riguarda invece la parte obbligazionaria, particolarmente complessa da gestire, riteniamo sia opportuno avere duration breve e inflation linker”.
Quindi ritiene che le reazioni del mercato in questa prima parte dell’anno siano, di fatto, guidate dai fondamentali?
“Direi proprio di sì. Non bisogna mai dimenticare che il vero nemico del mercato è l’incertezza, piuttosto che le notizie negative che vi si possono riversare: è un antico adagio che è stato confermato anche durante il conflitto in Ucraina. Sicuramente, una volta che questa crisi geopolitica troverà una soluzione, che ci auguriamo sia il più presto possibile, ci saranno delle ricadute, difficili da identificare in modo netto, ma che probabilmente ci consegneranno un mondo più polarizzato, con delle barriere più alte per quanto riguarda la circolazione delle merci e dei capitali. Tutto ciò avrà, come conseguenza, un aumento strutturale dei prezzi e, vista anche la necessità di raggiungere un’indipendenza energetica, a tendere, dovremo fare i conti con un’inflazione più elevata. Pensiamo che la crisi Ucraina porrà fine ai vent’anni di globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta. Pensiamo che, così come è già emerso negli anni precedenti soprattutto nel confronto tra Cina e Usa, ci sarà una più decisa ridefinizione delle catene di approvvigionamento e delle dinamiche legate al commercio globale, con un’accelerazione del fenomeno del “re-shoring”, anche per rendere possibile un controllo strategico delle diverse attività”.
Intravede il rischio che le banche centrali rimangano dietro la curva?
“La prima parte di quest’anno è stata complicatissima, soprattutto per la componete obbligazionaria, con le banche centrali che hanno riconosciuto l’inflazione come un fenomeno destinato a rimanere. Ciò ha imposto un’accelerazione della dialettica in merito, soprattutto da parte della Fed, tanto da creare dei movimenti significativi sulla curva dei rendimenti che hanno impattato pesantemente ogni portafoglio che avesse un minimo di duration nelle posizioni. Stiamo assistendo a una rivisitazione delle politiche di Volker, presidente della Fed dal 1979 al 1987, noto per le sue misure iper restrittive, come alcuni sostengono? Secondo noi le banche centrali, soprattutto la Fed, si sono mosse in modo molto astuto facendo un “whatever it takes” al contrario, lasciando cioè al mercato il compito di riposizionarsi restringendo le condizioni del credito prima di intervenire. Oggi si scontano 7 rialzi, ma alla luce di quelle che sono le ricadute della situazione attuale sul quadro economico, è probabile che le banche centrali, nella seconda metà dell’anno e soprattutto la Bce, assumano un atteggiamento più accomodante”.
In questo contesto, avete delle preferenze in termini di aree geografiche?
“È sempre complicato mostrare un’inclinazione maggiore verso un’area piuttosto che un’altra, perché il mondo è e sarà molto più interconnesso di quanto non lo fosse alcuni anni fa. Ciononostante, non si può non rilevare la posizione delicata in cui si ritrova l’Europa, vista la sua elevata dipendenza dalle materie prime e quindi sensibilità all’oscillazione dei prezzi, soprattutto di quelli legati al fabbisogno energetico. Per tale motivo tendiamo a preferire gli Usa, poiché l’economia americana è maggiormente indipendente, e l’Estremo oriente, inteso soprattutto come Cina. In particolare, pensiamo che quest’ultima sia un’opportunità d’investimento davvero importante, visto anche il ruolo di ago della bilancia che potrebbe ricoprire all’interno di un nuovo scenario di contrapposizione di blocchi geopolitici. Inoltre, dopo un anno come quello passato decisamente complicato, con politiche monetarie restrittive per contenere l’inflazione, interventi delle autorità sia nella gestione della pandemia, sia in quello della regolamentazione di alcuni settori strategici, si aprono, in un’ottica di lungo periodo, delle buone prospettive per l’asset class cinese, visto anche le valutazioni particolarmente interessanti del mercato azionario”.
Il fatto che la Cina abbia assunto una posizione di neutralità sul conflitto in Ucraina, pensa che potrà avere delle ricadute a livello commerciale, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti?
“Il rischio c’è, ma è altrettanto presumibile pensare che ci sia un livello per così dire sotterraneo di diplomazie che stanno tra loro discutendo, che potrebbe portare a un accordo, anche se non declamato ufficialmente. È vero che la Cina opera al meglio in uno scenario di maggior tranquillità, ma pensiamo che stia lavorando per trovare una qualche forma di accomodamento, perché la situazione attuale non è certo auspicata da quella che è la più importante economia al mondo”.
Pinuccia Parini
Dopo una lunga carriera in ambito finanziario sul lato, sia del sell side, sia del buy side, sono approdata a Fondi&Sicav

