Nel lungo termine, la diversificazione a livello globale ha consentito di affrontare al meglio le sfide dei mercati. Matteo Ramenghi, Chief Investment Officer, UBS WM Italy, UBS Europe SE, Succursale Italia
Le novità di inizio anno non sono mancate: geopolitica, dazi, tecnologia e
nuovi piani fiscali continuano a sovrapporsi, generando effetti potenzialmente controversi sui mercati finanziari. Prendendo spunto da una nostra pubblicazione recente, il «Global Investment Returns Yearbook» (in collaborazione con la London Business School), vorrei
provare a prendere le distanze dagli ultimi avvenimenti e trarre qualche lezione dal passato. Infatti, questa ricerca riporta dati storici a partire dal 1900 su azioni, obbligazioni e valute, un’utile finestra sulla storia osservata con la lente dei mercati.
Negli ultimi 125 anni, abbiamo assistito a numerosi sconvolgimenti e, secondo molti, a un’accelerazione della storia. Si sono susseguite due guerre mondiali, la guerra fredda, il crollo dell’Unione Sovietica, due pandemie e la globalizzazione. Sullo sfondo, si sono verificati avanzamenti tecnologici sempre più rapidi e due rivoluzioni industriali. L’economia ha attraversato condizioni estreme, dalla grande depressione degli anni ’30 al miracolo economico degli anni ’50-60, fino alla crisi finanziaria globale del 2008 e al collasso durante l’emergenza Covid-19. La prima cosa che colpisce, scorrendo questa ricerca, è la rapidità con cui muta il panorama dei mercati.
Oggi la tecnologia domina, con oltre un terzo dell’indice statunitense, ma all’inizio del secolo scorso le ferrovie rappresentavano il 63% (mentre oggi hanno un peso inferiore all’1%). Settori come energia, farmaceutica, media e telecomunicazioni erano praticamente assenti. Parallelamente, dal punto di vista geografico, gli Stati Uniti pesavano soltanto per il 15%, meno del Regno Unito e poco più di Francia e Germania. Oggi rappresentano oltre il 60%, mentre l’intera eurozona non arriva al 10%. Vale la pena ricordare come il Giappone, che oggi pesa circa il 6%, fosse arrivato a superare il 20% a inizio anni ’90. Una bella illustrazione di come le opportunità possano presentarsi in modi diversi e inaspettati e, quindi, del valore della diversificazione. Non sorprende l’ottima performance di lungo termine delle azioni statunitensi: dal 1900 i rendimenti annualizzati sono stati del 9,7%, un multiplo delle obbligazioni. Questo conferma la «legge del rischio e del rendimento», poiché il rischio, nel tempo, tende a essere ricompensato.
Sottolineo «nel tempo», perché i rendimenti non seguono mai un andamento lineare e non cedere alla paura nelle fasi turbolente spesso si rivela la scelta più saggia. Dopo il crollo di Wall Street del 1929, le azioni toccarono il punto minimo nel luglio 1932, con una perdita reale (quindi considerando anche l’inflazione) del 79% rispetto al picco di settembre 1929. Tuttavia, la ripresa durò 15 anni e mezzo e fu interrotta solo dalla seconda guerra mondiale. A volte il recupero è stato più laborioso. L’effetto della crisi petrolifera sulle borse durò da gennaio 1973 fino a ottobre 1974 e le azioni statunitensi scesero del 48%. Ci vollero solo 26 mesi per recuperare, ma, anche per via dell’elevata inflazione, in termini reali le azioni rimasero sott’acqua per oltre dieci anni.
In questo secolo, le crisi di borsa sono state via via più veloci. Lo scoppio della bolla tecnologica durò da marzo 2000 a ottobre 2002, con cali della borsa americana del 52% in termini reali. Il recupero durò sette anni e mezzo. La successiva crisi finanziaria globale dell’autunno 2008 vide il mercato raggiungere il suo punto più basso nel febbraio 2009, a -56% in termini reali. Il mercato impiegò solo quattro anni per recuperare. I tempi si sono accorciati ulteriormente in occasione della crisi legata alla pandemia di Covid-19. Infine, un anno negativo come il 2022 è stato seguito dagli ottimi 2023 e 2024.
L’analisi sul mercato obbligazionario, e in particolare sui titoli di Stato, è in parte falsata dal lungo periodo di tassi bassi (e negativi in alcune aree come l’eurozona) seguito alla crisi finanziaria globale del 2008. I numeri dicono che nei mercati analizzati il rendimento reale, al netto dell’inflazione, è stato comunque solo dello 0,9%. Ciò non ridimensiona però l’importante ruolo dell’obbligazionario nei portafogli per via del suo profilo anticiclico, almeno con riferimento alle obbligazioni di buona qualità. Inoltre, al momento i tassi d’interesse sono ancora abbastanza elevati, ma sono in rapida discesa. Bloccare rendimenti interessanti su obbligazioni a medio-lungo termine rappresenta a mio avviso ancora un’opportunità.
La liquidità si è spesso rivelata una zavorra per quanto riguarda i rendimenti e talvolta gli investitori inavvertitamente ne detengono troppa esponendosi al rischio d’inflazione. Quanto all’oro, il bene rifugio per eccellenza, la sua performance è legata alla paura e all’inflazione. Sebbene l’oro nel tempo abbia fornito una potenziale copertura contro l’inflazione, a medio termine lo ha fatto meno dell’azionario. Ogni tanto fa bene allungare lo sguardo oltre l’orizzonte temporale usuale.
Per parafrasare Cicerone: “La storia è maestra di vita”. Che cosa possiamo imparare quindi da tutti questi dati A lungo termine, il mercato azionario produce i ritorni più elevati (le nostre attese a lungo termine sono di un ritorno superiore al 7% per l’azionario globale espresso in euro) nonostante una maggiore volatilità. In questo periodo di grande incertezza, con le azioni che spesso ci sembrano viaggiare su livelli elevati, possiamo forse trarre sollievo dal fatto che in questo primo quarto di secolo, le borse hanno prodotto rendimenti reali di solo il 3,5%, una frazione rispetto al ‘900. Se i ritorni vengono costantemente reinvestiti per molti anni, producono a loro volta nuovo capitale. Si tratta del cosiddetto effetto composto, che genera una crescita esponenziale nel tempo; ma spesso non ne abbiamo percezione, perché siamo maggiormente predisposti a pensare in termini di progressioni costanti e incrementi regolari.
Questo vale ancor di più per un portafoglio azionario ben diversificato. Negli ultimi cinquant’anni, gli investimenti a livello globale hanno generato rapporti rendimento/volatilità nettamente migliori rispetto a quelli domestici nella grande maggioranza dei Paesi. In quantità dipendenti dall’orizzonte temporale e dalla tolleranza al rischio, un portafoglio deve includere posizioni meno cicliche e mantenere sempre una liquidità sufficiente a far fronte agli impegni senza dover smobilizzare gli investimenti in essere.
Nel determinare la quantità di liquidità da mantenere, è importante pianificare attentamente le esigenze dei prossimi anni e considerare eventuali uscite impreviste, senza perdere di vista il costo opportunità del denaro. Infatti, detenere troppa liquidità espone al rischio di rendimenti decrescenti e, molto probabilmente, inferiori all’inflazione, che spesso rappresenta il maggior nemico di lungo termine per un investitore.
Redazione
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