a cura di Pinuccia Parini
L’outlook di Massimiliano Maxia, senior fixed income specialist di Allianz Global Investors, non è particolarmente ottimista: quanto meno il manager del gruppo Allianz, nella sua approfondita analisi, tende a mettere in rilievo più gli elementi portatori di problemi, che le opportunità. E a dare i maggiori dubbi a Maxia è proprio l’Europa, che definisce l’area che presenta «le prospettive peggiori». Un maggiore ottimismo c’è nei confronti degli Stati Uniti, ma anche in questo caso i caveat superano abbondantemente gli elementi positivi.
Interessante anche la posizione sui titoli Esg, che, sempre secondo la visione di Allianz, hanno sottoperformato nel corso dell’anno appena trascorso non per loro intrinseci problemi, ma per le condizioni generali del mercato. Non appena i listini troveranno un nuovo livello di assestamento, questi titoli, sia azionari, sia obbligazionari, potranno tornare a emergere. Ma difficilmente ciò avverrà nella prima parte del 2023.
L’Europa ha davvero prospettive così negative? Deve aspettarsi un duro 2023?
«Se si guarda il contesto macroeconomico, tra le principali aree geografiche, l’Europa è quella che presenta le prospettive peggiori. Diversi economisti addirittura pensano che nel quarto trimestre 2022 alcuni paesi possano riportare una crescita negativa, quindi l’inizio di una fase recessiva. La nostra lettura è che difficilmente il Vecchio Continente non entrerà in recessione per due ragioni di fondo: la crisi energetica e le difficoltà che sta attraversando il principale paese dell’Unione, la Germania, soprattutto per il rallentamento delle esportazioni verso l’Asia (Cina in primis). Questa nostra visione è stata ulteriormente corroborata da quanto è emerso dalla riunione della Bce di dicembre. Dall’incontro è apparso, direi in modo palese, che le posizioni della Banca centrale sono per un perdurare di dinamiche inflative tali da dovere mantenere i tassi di interesse a un livello più elevato di quanto non sia attualmente scontato nei corsi. È vero che non si tratta di una nuova dichiarazione, visto che, sia la Bce, sia la Fed, nell’ultimo periodo hanno detto più volte che i mercati stanno sottostimando le loro azioni di rialzo dei tassi. Ciò detto, lo scollamento delle posizioni può essere forse ricercato in un problema di credibilità che si è affievolita nei confronti degli istituti centrali, visto che sino a un anno fa identificavano l’inflazione come fenomeno transitorio».
È un tiro alla fune?
«Forse non è un vero e proprio tiro alla fune, visto anche il monito lanciato dalla governatrice Christine Lagarde di non sfidare la Bce, ma, da un lato, le banche centrali puntano ad ancorare le loro aspettative d’inflazione, dall’altro gli operatori mostrano tutto il loro scetticismo. Se la Bce dovesse continuare ad alzare i tassi d’interesse di 50 punti base nei prossimi mesi, sino a raggiungere un tasso terminale del 4%, quando attualmente il mercato sconta circa il 3,2% (dato al 21 dicembre 2022), sarebbe estremamente prevedibile, a tendere, un impatto rilevante a livello economico. La situazione, quindi, per l’Europa non è tra le migliori e, per tale ragione, credo che, sia il comparto azionario, sia quello obbligazionario rimarranno sotto pressione. In merito a quest’ultimo, se sino a prima della riunione della Bce si poteva pensare che si fosse prossimi a una fase di stabilizzazione dei tassi e che il mercato si potesse muovere in un trading-range abbastanza ampio, ma senza la volatilità che lo ha caratterizzato nel 2022, post incontro il quadro è mutato. Con curve dei rendimenti piatte o inclinate negativamente (la curva dei rendimenti è invertita in Germania) e una banca centrale che continua ad alzare, le prospettive per i bond europei non sono rosee».
Che cosa vi aspettate nella prima parte del 2023?
«Ci attendiamo un primo semestre volatile e poi credo che bisognerà prendere in considerazione l’evoluzione del contesto globale per potere delineare le strategie per la seconda parte dell’anno. E i quesiti sono diversi. Che cosa farà la Fed? Se la Fed fermasse i rialzi e la Bce continuasse, come reagirebbero i mercati? Sono domande aperte che impongono uno stretto monitoraggio della situazione per valutare le diverse ricadute. Per noi la recessione è un reset, che porta le banche centrali a interrompere le politiche restrittive, nonostante i tassi di interesse rimangano a un livello elevato. Ma è proprio da qui che si può ripartire, anche in termini di performance dell’azionario. È probabile che, per i mercati finanziari, la seconda parte del 2023 risulti migliore della prima, dove penso prevarrà la cautela. Se dobbiamo guardare all’equity in termini settoriali, ci aspettiamo che, in presenza di volatilità, quelli più difensivi, in termini relativi, possano fare meglio: dal finanziario (con ovviamente il caveat che, se è vero che c’è spazio di miglioramento dei margini per i tassi in salita, c’è anche il rischio di deterioramento degli impieghi a causa del rallentamento economico) alle utility, dalla sanità all’energia. La componente growth rimarrà ancora vulnerabile, visto l’impatto negativo esercitato dai tassi in rialzo. Per quanto riguarda il mercato del reddito fisso, suggeriamo duration corta (soprattutto in Europa), strategie di relative value, preferenza per la componente governativa core e per quella corporate di qualità elevata».
In questa situazione molto complicata per l’Europa, gli investimenti Esg possono rappresentare un’opportunità interessante?
«Credo che nella prima parte del 2023, soprattutto per quanto riguarda il mercato azionario e in particolare quello europeo, ci troveremo ancora di fronte a una fase di ricerca di stabilizzazione che riguarderà tutti i titoli. E la stessa affermazione vale anche per il mercato obbligazionario. Le opportunità, per entrambe le asset class, potrebbero emergere, ma non nelle attuali condizioni e non perché si applicano criteri Esg o un approccio Sri agli investimenti. Il vero punto di domanda è dove si fermeranno i tassi di interesse e, successivamente, che cosa succederà alla crescita. I green bond hanno fatto male quest’anno non per la loro connotazione, bensì perché sono strumenti solitamente caratterizzati da una duration lunga, maggiore della componente governativa tradizionale, che li ha penalizzati. Anche il cosiddetto greenium (ovvero il premio che si paga per un’obbligazione sostenibile rispetto a un’altra non-green) è venuto un po’ meno, ma ciò per le particolari situazioni del mercato. Lo stesso ammontare di emissioni green-bond è stato inferiore rispetto al 2021, ma la spiegazione va forse ricercata in un contesto di tassi al rialzo, nel quale le condizioni non risultano favorevoli per un investitore in titoli con scadenza 2040-2045. Perciò, se le attese sono per una Bce che continuerà ad alzare i tassi, questo comparto è destinato a sottoperformare, anche se l’adozione di criteri Esg o Sri aiuta certamente a identificare titoli di qualità più elevata».
Quindi il tema non è che non piacciono più i prodotti Esg?
«Esatto. È il contesto di mercato che non li favorisce, sia in ambito obbligazionario, come si è argomentato, sia in quello azionario, dove il migliore settore in termini di performance è stato quello energetico. Quando ci sarà il reset del mercato, l’approccio Esg tornerà a riemergere, in particolare in Europa, dove così tanta importanza viene data alla transizione energetica. Inoltre, va fatta una considerazione di fondo, quando si parla di investimenti sostenibili: è un approccio che viene scelto per il suo valore intrinseco o per le aspettative di performance? Teoricamente le due cose dovrebbero essere correlate, ma non sempre le condizioni di mercato lo permettono, soprattutto se si prendono in considerazione archi di tempo molto limitati. Infine, aggiungerei che, per alcune tipologie di investimento, un minimo di premio deve essere offerto».
Il quadro normativo in materia di prodotti sostenibili ha generato qualche impasse?
«La sua continua evoluzione non facilita le classificazioni degli investimenti per tipologia in base alla normativa e lo si vede, come è avvenuto di recente nella riattribuzione a categorie di appartenenza di alcuni fondi. Penso che, a livello normativo, debbano essere fatte alcune precisazioni importanti. Comunque, a nostro parere, le prospettive per questa tipologia di investimenti rimangono molto interessanti all’interno di un trend in crescita».
Stati Uniti: si sta cominciando a parlare di uscita dal tunnel. È vero?
«Anche gli Stati Uniti vanno incontro a un rallentamento economico importante, ma il mercato del lavoro è molto sostenuto e in salute, anche se si cominciano a vedere alcuni dati macro non belli: le vendite al dettaglio di novembre sotto le attese, l’indice Ism inferiore a 50 (livello al di sotto o al di sopra del quale si evidenzia se si è rispettivamente in fase di contrazione o di espansione economica) per la prima volta dal maggio 2020 (il punto più acuto della pandemia) e il mercato immobiliare in rallentamento. È probabile che ci sarà una recessione, anche se non lunga e profonda, anziché un soft landing, nonostante non sia quest’ultima un’ipotesi che il mercato esclude. Tuttavia, rispetto alla Bce, la Fed è più avanti per quanto riguarda il rialzo dei tassi e il mercato obbligazionario americano è in una fase di trading range e stabilizzazione da molto più tempo di quello europeo. Proprio per questo motivo, preferiamo il mercato del reddito fisso Usa rispetto a quello del Vecchio continente, nonostante la Fed abbia parlato di ulteriori rialzi, senza però condizionare troppo il mercato: il tasso terminale si è mosso dal 4,8% al 5,1% (dati del 21 dicembre 2022). Inoltre, anche all’interno dello stesso comitato della Fed (Fomc), i pareri sono dissimili, così come testimoniato dalla dispersione del dot plot, il grafico a punti che sintetizza le previsioni dei vari membri della banca centrale americana sulla traiettoria dei tassi d’interesse. Anche per gli Stati Uniti i tassi rimarranno alti per un periodo di tempo più lungo, con il primo taglio previsto a gennaio 2024, come indicato dalla curva forward, anche se la Fed dovrebbe fermarsi con gli aumenti a marzo 2023, mentre la Bce dovrebbe seguire nell’estate dello stesso anno. Il fatto che la Banca centrale americana sia prossima alla conclusione, aiuta i mercati. Se si guarda poi alla curva dei rendimenti, è sì invertita o piatta, ma il tratto 5-30 anni è prossimo alla re-inversione, un’indicazione che spesso viene guardata come segnale di recessione o di un forte indebolimento dell’economia. Noi ci attendiamo un dato importante di rallentamento del Pil americano già nel primo trimestre 2023».
Queste sue considerazioni implicano che l’area geografica di preferenza siano gli Stati Uniti?
«Sì, sia come mercato obbligazionario, sia azionario. In termini di opportunità e di settori, direi che valgono le stesse considerazioni fatte per il mercato europeo e, anche in questo caso, la preferenza è per i value stock. Per quanto riguarda l’indice di riferimento, l’S&P 500, consigliamo di acquistare sulle eventuali correzioni e, a tale proposito, abbiamo anche identificato possibili livelli di ingresso: 3.850, 3.600 e 3.300. Sono livelli ipotetici, che non è detto siano raggiunti ma, se il mercato dovesse arrivare alla terza soglia indicata (non è il nostro scenario base), significherebbe che ha iniziato a scontare non più solo un rialzo dei tassi, ma una recessione degli utili aziendali. Una volta che anche ciò dovesse palesarsi, sarebbe un ulteriore segnale per la Fed di ripensare la propria politica monetaria. È proprio quando diventa evidente l’effetto del rialzo dei tassi sul tessuto economico che scatta, secondo noi, la fase di reset che, in quanto tale, segna la ripartenza in un nuovo contesto e l’inizio di una nuova fase: è un momento che riteniamo sia importante comprendere e cogliere. Sarà poi fondamentale vedere come andrà la prossima stagione degli utili americani (quarto trimestre 2022) che inizierà a gennaio 2023, perché è opportuno ricordare che, a oggi, la flessione degli indici azionari è ascrivibile soprattutto alla revisione dei multipli. Le indicazioni che emergeranno saranno importanti anche per capire meglio il contesto macro e quantificare la misura del rallentamento economico».
Anche negli Stati Uniti l’Esg offre opportunità interessanti?
«Direi che valgono le stesse considerazioni fatte per il mercato europeo. In merito ai temi Esg e Sri, l’Europa è più avanti degli Stati Uniti. Certo, se l’America mostrasse la stessa sensibilità al tema presente nel Vecchio continente, a maggior ragione le prospettive di crescita in questo ambito riceverebbero un forte impulso e, di conseguenza, ne beneficerebbe anche la performance».
La crisi della Cina si proietterà anche nell’anno prossimo?
«Ritengo che un impulso significativo all’attività economica potrebbe derivare dalla revisione della politica di tolleranza zero nei confronti del Covid. Sembra che si stia andando verso un allentamento sempre più evidente delle restrizioni, fattore decisivo, viste le dimensioni del paese. Credo che il cambiamento sarà graduale, perché le aperture sono sempre più frequenti ma, poiché siamo in inverno, se i casi dovessero aumentare esponenzialmente non è escluso che ci possano essere alcune contromisure. Se questo mutamento della politica di gestione del Covid si concretizzasse, cambierebbero le prospettive di crescita, perché ci sarebbero impatti positivi sul settore immobiliare, sui consumi e sull’import-export. I vantaggi, per quanto riguarda i mercati finanziari, sono che, sia la politica monetaria, sia quella fiscale possono ancora essere accomodanti, una situazione quasi unica tra le più importanti economie globali. Il Pil dovrebbe passare, stando alle previsioni degli analisti, dal +3% per il 2022 al +4,5-5% per il 2023 e porterebbe anche a una stabilizzazione della valuta. Positive, perciò, le aspettative per il mercato azionario che, a differenza del 2022 in cui la Cina era vista soprattutto come un modo per diversificare il portafoglio, ora ritorna a essere considerata dal punto di vista dei fondamentali. L’obbligazionario, invece, come per tutto il mercato globale dei bond, sarà da approcciare attraverso strategie di relative value, non direzionali. Inoltre, in termini assoluti, i rendimenti non sono particolarmente allettanti, se si guarda al carry, tanto più se fossero paragonati a quelli americani, dove un Treasury a due anni rende oltre il 4%. Un aspetto, però, da non trascurare è il potenziale rafforzamento della divisa locale, soprattutto se l’economia ritornasse tonica».
La Cina è uno dei paesi che si stanno maggiormente impegnando nella sostenibilità: questo fatto dà opportunità d’investimento?
«Penso che le intenzioni della Cina a muoversi in tale direzione siano buone, anche perché ne va della sostenibilità del suo modello di crescita. Ci sono opportunità di investimento che vanno colte con un’attenta analisi, sia settoriale, sia di picking, soprattutto negli ambiti dove maggiore è l’impegno in questa direzione».
Dopo un periodo molto difficile, si può pensare che stia cambiando qualcosa nei mercati emergenti?
«La nostra view è che forse è ancora un po’ presto, ma i mercati emergenti possono essere potenzialmente una chiamata per la seconda parte del 2023. Le motivazioni sono riconducibili al fatto che bisognerà vedere quando la Fed smetterà di alzare i tassi e come si comporterà l’economia americana. Storicamente, i bond dei paesi emergenti sovraperformano quando gli Usa entrano in recessione e il dollaro non si apprezza. In termini di paesi, abbiamo una preferenza per Brasile, Messico, Sud Africa e Corea del Sud».
leggi il numero 150
Pinuccia Parini
Dopo una lunga carriera in ambito finanziario sul lato, sia del sell side, sia del buy side, sono approdata a Fondi&Sicav

