I mercati hanno reagito con apparente calma: lieve fuga verso asset sicuri, modesta salita del petrolio e azionario sostanzialmente stabile. Anthony Willis, Investment Manager di Columbia Threadneedle Investments
È corretto considerare gli Stati Uniti coinvolti in un conflitto su vasta scala, o si è trattato di un solo intervento circoscritto? Molto dipenderà da come l’Iran deciderà di reagire. Nel frattempo, il conflitto tra Israele e Iran prosegue e Teheran appare in una posizione di debolezza: i suoi principali alleati, Cina e Russia, offrono solo un sostegno limitato e le sue forze armate sono state indebolite dagli attacchi israeliani contro installazioni militari e figure governative di rilievo.
Il Presidente Trump ha persino evocato l’ipotesi di un cambio di regime sui social media, ma negli Stati Uniti non c’è oggi la volontà di un intervento paragonabile a quanto visto in passato in Afghanistan o Iraq.
I principali rischi per i mercati finanziari restano legati all’andamento del prezzo del petrolio e alla possibilità di un’escalation nel caso in cui l’Iran dovesse chiudere lo Stretto di Hormuz, attaccando con mine o missili le navi in transito.
Lo Stretto di Hormuz è infatti una rotta cruciale per le forniture petrolifere globali: nel 2024 ha visto transitare circa 20,3 milioni di barili al giorno, pari a circa il 20% del consumo mondiale di greggio. L’Iran esporta da solo 2 milioni di barili al giorno lungo questo passaggio — soprattutto verso la Cina — mentre da Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Qatar passano complessivamente circa 20 milioni di barili al giorno. Inoltre, dallo Stretto transita anche circa il 20% delle forniture globali di GNL. È probabile che la Quinta Flotta della Marina statunitense, basata in Bahrein, impedirebbe la chiusura completa della rotta, ma inevitabilmente ci sarebbero interruzioni nei flussi.
È importante ricordare che il panorama petrolifero globale è molto cambiato negli ultimi 20 anni, anche grazie all’ascesa dello shale oil statunitense. Sebbene eventuali problemi nello Stretto di Hormuz comporterebbero comunque rischi di rialzo per il prezzo del greggio, l’impatto sull’economia mondiale sarebbe probabilmente meno severo rispetto alle crisi passate. Oggi gli Stati Uniti sono il primo produttore mondiale, con il 22% della produzione globale di petrolio, seguiti dall’Arabia Saudita (11%) e dall’Iran (4%, la cui quota è in gran parte destinata alla Cina).
La storia insegna che i mercati riescono a gestire la volatilità geopolitica, a patto che gli shock abbiano un impatto contenuto sull’economia globale.
Al momento il contesto rimane “fluido” e, sebbene le nostre prospettive restino costruttive, siamo consapevoli che — dopo il deciso rimbalzo seguito alle turbolenze di mercato innescate dai dazi in primavera — un eventuale deterioramento della propensione al rischio potrebbe facilmente provocare una pausa o un’inversione di tendenza del recente slancio.
Redazione
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