A cura di Matteo Ramenghi, Chief Investment Officer di UBS WM in Italia

Non è facile decifrare la nuova agenda economica americana ed è
possibile che alcuni tasselli della strategia di Trump non siano ancora stati
annunciati. Alcune incongruenze, che ruotano soprattutto intorno al dollaro
e all’inflazione, creano incertezza per i mercati, che tipicamente prediligono
un quadro stabile nel quale formulare previsioni.

Matteo Ramenghi

Come ha ribadito in campagna elettorale, Donald Trump desidera un dollaro debole e in parte lo ha già ottenuto, con una svalutazione rispetto all’euro di quasi il 10%. Ma allo stesso tempo vuole difendere il ruolo di riferimento globale della valuta statunitense. Si tratta di due obiettivi non facilmente conciliabili.

Il peso internazionale del dollaro, la valuta dominante a livello globale, è in discesa da tempo: la quota di dollari nelle riserve internazionali è diminuita dal 72% di inizio secolo a meno del 60% e da oltre tre anni le banche centrali,
soprattutto quelle dei Paesi BRICS, comprano oro in quantità ingente per
diversificare rispetto al biglietto verde.

In realtà, il deficit commerciale statunitense ha contribuito a rendere il dollaro
la principale valuta mondiale: gli esportatori negli Stati Uniti vengono pagati
in dollari che, trattandosi di valuta pregiata, spesso reinvestono in attività
finanziarie americane a partire dai Treasury, finanziando quindi il deficit
pubblico.

Questo meccanismo ha avuto sicuramente alcuni effetti positivi per gli Stati
Uniti. Infatti, una grande quantità di dollari, secondo alcune stime circa la
metà, circolano al di fuori degli dei confini nazionali, diluendo gli effetti
negativi di politiche monetarie espansive. Se i dazi portassero a una riduzione
del deficit commerciale, nel tempo ciò potrebbe ridimensionare il ruolo
internazionale del biglietto verde.

Proprio su questo tema si sono concentrate varie speculazioni riguardo
a un possibile accordo di «Mar-a-Lago», una delle residenze di Trump,
mai confermate dalla Casa Bianca. Secondo queste indiscrezioni, che non
hanno alcuna conferma ufficiale, si sarebbero tenute discussioni su come
mantenere la supremazia internazionale del dollaro, indebolendone il valore
e riducendo i rendimenti dei Treasury. Tra le varie ipotesi che circolano, ciò
potrebbe includere un’inedita tassazione alla fonte degli interessi, una sorta di
commissione per detenere attività in dollari, e l’emissione di debito a scadenza
ultra lunga per le istituzioni straniere.

Per la verità, le autorità statunitensi non hanno mai fatto menzione di simili
piani. E, a nostro avviso, la maggior parte dei Paesi non sottoscriverebbe
accordi di questo tipo, a meno che non comprendano, per esempio,
l’annullamento dei dazi o una garanzia di protezione militare. Sarebbe
comunque un cambio di paradigma rischioso che a medio termine potrebbe
minare la percezione del dollaro che nell’immaginario rappresenta prima di
tutto espressione di libertà economica.

L’obiettivo dichiarato dietro i dazi e il dollaro debole è riportare attività
produttive negli Stati Uniti e bisogna riconoscere che molte aziende in diversi
settori hanno annunciato piani che vanno in questa direzione, con nuovi
investimenti negli Stati Uniti.

Tuttavia, il mercato del lavoro statunitense corre già a pieno regime
e l’amministrazione Trump vuole anche ridurre l’immigrazione. Pertanto,
potrebbe essere difficile reperire forza lavoro e si potrebbe assistere a un
aumento delle retribuzioni, che farebbe salire l’inflazione.

Proprio questa è l’area meno chiara per i mercati: più dazi, meno
immigrazione e una svalutazione del dollaro sono tutti elementi inflattivi,
mentre la campagna elettorale ha fatto leva sull’aumento del potere
d’acquisto delle famiglie in contrapposizione all’inflazione post Covid
attribuita alle politiche economiche di Biden.

La strategia della nuova amministrazione potrebbe prevedere di compensare
queste spinte inflattive abbassando i costi dell’energia. Questo potrebbe
spiegare il nuovo ritiro degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima, la
deregulation sulle trivellazioni di gas e petrolio e la richiesta all’OPEC di
aumentare la produzione. In effetti, il petrolio (WTI) è sceso del 15% da inizio
anno, anche se il ribasso è dovuto soprattutto ai timori di recessione.

Queste apparenti contraddizioni continuano a condizionare i mercati
finanziari e peseranno sull’andamento economico globale nei prossimi mesi,
perché in assenza di chiarezza le aziende rimandano i nuovi progetti.

La scorsa settimana il Presidente della Federal Reserve (Fed), Jerome Powell,
ha dichiarato che i dazi annunciati sono «significativamente più elevati del
previsto» e potrebbero mettere la banca centrale in una posizione «difficile»,
alimentando un’inflazione più alta e riducendo la crescita. Ha aggiunto
che l’istituto «attenderà maggiore chiarezza» prima di modificare i tassi
d’interesse.

Tuttavia, riteniamo che la Fed sarà reattiva a eventuali segnali di debolezza
economica, in particolare nel caso di un deterioramento del mercato
del lavoro, che da statuto è la sua principale priorità. Lo scenario che
consideriamo più probabile prevede che la Fed tagli i tassi di 75-100 punti
base quest’anno.

Le dichiarazioni di Powell sono arrivate dopo la notizia che l’amministrazione
Trump ha imposto restrizioni alle esportazioni verso la Cina del chip per
l’intelligenza artificiale di NVIDIA, alimentando timori di nuove escalation.
Parallelamente un altro produttore di chip, AMD, ha avvertito di costi
aggiuntivi fino a 800 milioni di dollari a causa di queste restrizioni.

Nonostante le relazioni tra Stati Uniti e Cina attraversino un momento
difficile, da Trump e Xi Jinping sono venuti segnali di apertura al dialogo e
ci sembra probabile che si possa raggiungere un compromesso nei prossimi
mesi. I dazi tra Stati Uniti e Cina si potrebbero quindi stabilizzare tra il 30 e
il 40%.

Con il resto del mondo, il Presidente Trump ha già congelato i dazi reciproci
e su specifici settori e, nel complesso, stimiamo che il tasso effettivo dei dazi
statunitensi (esclusa la Cina) si attesti nella fascia 10-15%, con Canada e
Messico in gran parte esenti dai dazi.

A seconda del livello, i dazi avranno effetti negativi sulla crescita globale e
sull’inflazione americana. Negli Stati Uniti non è esclusa una breve recessione
tecnica in estate, con inflazione in risalita.

La Cina è stata colpita duramente, con un impatto sul PIL superiore a 1,5 punti
percentuali; potrebbe varare nuovi stimoli fiscali e monetari, ma nonostante
questi ci aspettiamo che cresca soltanto nel 3,4%

Per la zona euro, l’impatto diretto dei dazi statunitensi è limitato, ma bisogna
considerare anche l’effetto di un aumento delle esportazioni cinesi verso
l’Europa, che potrebbe essere deflattivo. La Banca centrale europea (BCE)
potrebbe quindi tagliare i tassi più del previsto. La possibile fine della guerra
in Ucraina e il piano di espansione fiscale tedesco potrebbero compensare i
dazi nel medio termine.

Con tanta incertezza, l’esperienza insegna che è importante mantenere la
calma, aumentare la diversificazione e seguire il proprio piano finanziario. La
volatilità dell’ultimo mese in parte è stata amplificata da alcuni tecnicismi dei
mercati, tra algoritmi e margin call, cioè la richiesta agli investitori a leva sul
mercato azionario di rientrare rapidamente.

Il flusso di notizie potrebbe migliorare, con possibili tagli dei tassi e
trattative sui dazi. Il mercato azionario americano potrebbe offrire buone
opportunità di recupero, specie su temi di lungo termine come intelligenza
artificiale, elettrificazione e longevità, mentre i rendimenti obbligazionari
elevati favoriscono le obbligazioni di qualità, soprattutto quelle denominate
in euro, poiché i tassi potrebbero scendere più del previsto.

Le guerre commerciali spesso portano a svalutazioni valutarie e la BCE ha una
governance più complessa e uno statuto più concentrato sull’inflazione che
fanno sì che non sia tra le più reattive; per questo il dollaro potrebbe rimanere
debole a breve termine, soprattutto se si dovessero rafforzare le voci relative
a un accordo di Mar-a-Lago.


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