A cura di Tim Drayson, Head of Economics di LGIM

Nel corso del 2024, l’economia degli Stati Uniti è stata caratterizzata da una crescita solida, accompagnata da un’inflazione in calo e da un ribilanciamento del mercato del lavoro. Tuttavia, il risultato delle elezioni presidenziali potrebbe stravolgere questo scenario favorevole.

Tim Drayson

Infatti, Donald Trump si appresta a iniziare questo suo secondo mandato presidenziale, forte di una netta vittoria alle ultime elezioni, in cui il suo Partito Repubblicano si è aggiudicato la Casa Bianca, la maggioranza dei voti popolari e il controllo di entrambe le camere del Congresso.

Ai mercati sono note le politiche che il tycoon vuole applicare, le quali prevedono piani per la deregolamentazione, tagli alle tasse, dazi doganali e strette sull’immigrazione. Ma non ne conoscono le tempistiche, la portata e la probabilità che queste siano applicate davvero. Pertanto, chi deve fare delle previsioni per il futuro naviga nell’incertezza. Eppure, in molti continuano a vedere il soft landing come lo scenario più probabile, sostenuto soprattutto da tre fattori:
  • Saranno applicati nuovi dazi sulle importazioni cinesi, ma solo a partire dalla fine del 2025 e nel 2026 e non si prevedono impennate brusche, ma contenute e costanti nel tempo.
  • Nonostante ci sia il rischio di un aumento dei dazi anche contro player che non sono la Cina, questo innalzamento dovrebbe essere contenuto. Inoltre, è opinione diffusa che l’effetto inflazionistico che questi generano sarà temporaneo. Infine, molti esperti di settore stimano che l’impatto sulla crescita sarà compensato dai benefici derivanti dalla deregolamentazione e dal taglio delle imposte.
  • Per quanto riguarda l’immigrazione, il consenso diffuso prevede che ci sarà una stretta sugli ingressi, ma è difficile che si assisterà a deportazioni, se non nel caso di criminali o in altri casi particolari.

Secondo noi queste previsioni sono eccessivamente ottimistiche e si basano troppo su quanto si è osservato nella prima amministrazione Trump. Senza considerare però che oggi ci troviamo in uno scenario in cui il ciclo economico è in una fase più avanzata, l’inflazione è al di sopra e non al di sotto dei livelli target e il rapporto deficit/Pil negli States è molto più elevato rispetto al passato. Pertanto, dalla politica fiscale potrebbero non arrivare i tanto attesi stimoli.

Al contrario, il Congresso, per rifinanziare i tagli delle tasse che scadranno il prossimo anno, dovrà cercare i fondi da altre parti e ciò potrebbe comportare tagli alla spesa pubblica e l’abrogazione di parti dell’Inflation Reduction Act. Inoltre, considerando che i legislatori tenderanno a opporsi a misure che intacchino direttamente le misure a sostegno della popolazione, i dazi potrebbero essere sfruttati come un mezzo (rischioso) per generare nuove entrate.

A nostro avviso, il consenso starebbe anche sottovalutando l’estensione e l’impatto dei dazi. Durante la prima amministrazione Trump si è osservato come le ripercussioni di questi si siano riversate soprattutto sui prezzi dei beni, risultando in redditi reali e spesa dei consumatori inferiori.

Allora però, il tasso delle tariffe era cresciuto di appena il 2%. Se stavolta il tycoon dovesse davvero applicare il 60% sulla Cina e il 10% sul resto del mondo, come dichiarato in campagna elettorale, allora l’impatto sarebbe otto volte superiore ed è impossibile prevedere chi ne sarebbe più danneggiato.

Non è da escludere che le catene di approvvigionamento profondamente modificate, la minore fiducia e gli investimenti in calo delle imprese, assieme con politiche fiscali più stringenti, possano anche innescare una recessione globale.

Al di fuori degli Stati Uniti, questa attitudine “America First” andrebbe a danneggiare soprattutto la Cina, nonostante la dipendenza del paese dalle sue esportazioni verso l’America si sia quasi dimezzata rispetto al 2018. Per quanto riguarda l’Unione Europea, la sua crescita ha arrancato negli ultimi mesi. E molti paesi potrebbero tornare ad adottare politiche fiscali restrittive.

Resta però il grande interrogativo della Germania, che deve decidere se allentare i suoi vincoli interni sull’indebitamento per risolvere i problemi strutturali che la affliggono. Infine, siamo prudenti anche nei confronti del Regno Unito. Il recente aumento delle tasse sembra aver intaccato la fiducia delle imprese e spinto al rialzo i tassi di interesse. Il che potrebbe compensare qualsiasi impulso alla crescita derivante dall’aumento della spesa pubblica.

Se il Regno Unito si trovasse coinvolto in una guerra commerciale globale, la Banca d’Inghilterra potrebbe dover adottare tagliare i tassi a un ritmo più rapido di quello attualmente previsto dai mercati.


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